Recensione: Symmetry Through Collapse
Sono recenti le notizie sugli ottimi risultati nelle vendite di To the Bone di Steven Wilson: miglior nuova entrata in UK e attuale terzo posto proprio in patria e secondo in Germania. Da fan e da progster questi dati mi esaltano e (chissà come mai) mi riportano a quando ero ragazzino. Non potendo usare ancora d’internet, avevo l’ingenuità di ascoltare alla radio le classifiche degli album e dei singoli più venduti in Italia, per capire se i miei gruppi preferiti, ovviamente del tutto ignorati, (se ricordo bene riusciva ad avere buoni risultati solo Marylin Manson) erano riusciti ad arrivare ai primi posti. Ammetto che questa ingenuità non l’ho persa del tutto e ogni tanto continuo a sperarci, non perché sia un appassionato di classifiche ma semplicemente per il gusto di tifare per chi apprezzo di più.
L’album che sto per recensire, mentre io sogno di vederlo tra i primi dieci più venduti dell’anno, faticherebbe non poco a entrare anche in classifiche riguardanti fasce d’utenza molto più ristrette e selezionate. Intanto perché già è difficile classificarlo in sé, tanto è folle, e poi perché si presenta al limite di – se non oltre – qualsiasi categoria, aspetto non da poco per il sottoscritto, che detesta le definizioni di genere.
Symmetry Through Collapse è l’ultimo lavoro dei Combat Astronomy, band dalle nazionalità multiple, ma con sede in Minnesota, nata come il progetto solista di James Huggett nel 1998 e che ha esordito nel 2001. Oggi arrivano al loro settimo e ultimo album, ampliandosi nella formazione e attraversando tradizioni, sonorità solo apparentemente diverse, per evolversi fino alla realizzazione di un lavoro compiuto, maturo, dolce e spietato. Il platter mostra tutta la sua poliedrica natura da subito – con la prima canzone “Iroke” – e lo fa con la sciamanica voce della cantante (è italiana, i testi sono suoi, ma ancora non voglio dire il suo nome), presto in danza col basso di Huggett e poi con la batteria di Peter Fairclough. In una vocalità al contempo ammaliante e straniante, in una ritmica complessa, si inserisce, quasi strisciando nascosto, un clavicordo (di Martin Archer, anche al sassofono e all’organo, nonché, come Hugget, all’elettronica), che rapisce, completando il preludio di quello che l’album ha da offrire. Sonorità difficili, ostiche, scontrose, che risultano tali solo se s’ascolta senza abbandonarsi al sentimento, senza lasciarsi andare, guidati dal suo sconvolgente potere immaginativo, da questo Nagual, in un viaggio che lo stesso Huggett definisce “trans-dimensionale”, lungo un sentiero tortuoso che trova il suo equilibrio solo nel “collasso di un sistema indefinibile”. L’intento degli autori sembra proprio quello di disorientare, tanto che i testi non sono presenti nemmeno nel libretto del CD, di far perdere le difese all’ascoltatore, per poi regalargli un’esperienza senza compromessi, unica ed eletta.
Prima non ho voluto nominare la cantante, perché è parlando di lei che voglio finire. Dalila Kayros, cantante degli italiani e avant-gard Syk, è un prodigio, una rivelazione. Certa critica l’ha accostata a Demetrio Stratos, ma solo per far comprendere lo spessore e il livello che le appartengono, mentre la sua voce, è indubbio, appartiene a ogni tempo, tanto è ancestrale, animica, sciamanica. Così come per il bellissimo Symmetry Through Collapse, descrivere la voce di Dalila è inutile e ingiusto, si deve sentirla non solo con l’udito.