Recensione: Symphony Of Sin

Di Ottavio Pariante - 16 Ottobre 2013 - 0:01
Symphony Of Sin
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2013
Nazione:
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75

A due anni esatti dall’ultimo lavoro sulla lunga distanza – intitolato “Trinity” – tornano in pista i britannici Eden’s Curse, protagonisti di un nuovo capitolo discografico con “Symphony of Sin”.

Due anni di silenzio che hanno portato in dote alcuni cambi di line-up molto importanti, uno dei quali piuttosto clamoroso: ci riferiamo ovviamente all’uscita dall’ensemble di uno dei membri fondatori della band, (assieme  al cantante-bassista, lo scozzese Paul Logue), ovvero Micheal Eden, sostituito nel luglio del 2011 dal serbo Nikola Mijic.
Meno eclatante ma comunque da segnalare anche il cambio alle tastiere, con l’uscita dalla band del talentuoso musicista italiano Alessandro Del Vecchio a favore di Steve Williams, conosciuto per le importanti collaborazioni con Dragonforce e Power Quest.
Dal punto di vista prettamente musicale, gli Eden’s Curse non cambiano comunque in alcun modo registro, rendendosi  autori di un melodic-metal dal sound molto ricercato ed elegante, in cui Hard-Rock, progressive e power convivono in maniera proficua.

Sono ben tredici le tracce di questo nuovo disco, messe insieme abilmente per formare un ipotetico flusso di note granitico e impenetrabile.
Un album lungo ma piuttosto piacevole, condito da qualche spunto interessante e dal profilo tecnico notevole: il songwriting a tratti sembra finalmente maturo ed eterogeneo con le varie componenti poste in buon equilibrio fra loro.
Grazie all’eclettismo ed alla ricchezza di differenti sfumature, la nuova opera degli Eden’s Curse potrà incuriosire e divertire una gran fetta di appassionati, anche quelli più oltranzisisti: nello scorrere dei minuti sono, in effetti, diversi i generi che duettano tra di loro nel tentativo di creare qualcosa di piuttosto personale e genuino.

Sin dai primi sussulti dell’album, sanciti proprio dalla title-track, le premesse sono buone: un gesto coraggioso, quello di affidarsi in apertura al pezzo più rappresentativo, sia a livello di liriche, sia a livello prettamente artistico.
Un “azzardo” in ogni caso premiato dal fascino di un brano ben studiato e di grande impatto.
Molto affascinante il delicato ed atmosferico intro, reso ancora più evocativo grazie agli ottimi arrangiamenti operistici creati su misura. Un bell’antipasto, che funge da anticamera al pezzo vero e proprio in cui i toni soffusi e pacati vengono stroncati da un up-tempo nervoso e adrenalinico, ottimo nel mettere in evidenza l’eleganza e la grande classe della band.

Con il secondo episodio “Break the silence”, gli Eden’s Curse cambiano parzialmente registro, preferendo al power progressive oscuro e sinfonico, un più spumeggiante hard rock da strada.
Un scelta tutto sommato interessante – anche se singolare – che mette in mostra sin dalle prime battute il potenziale artistico e tecnico della band.
I suoni si fanno di conseguenza più grezzi e diretti; la melodia più ricercata e sognante, lascia spazio ad adrenalici inseguimenti di chitarre, basso e batteria, con la voce del singer serbo sempre in bella evidenza anche se sottoposta a registri leggermente diversi rispetto all’esordio.

“Evil and divine” rappresenta invece il primo singolo ufficiale del disco. Una scelta giusta ed oculata: il brano è molto versatile ed identifica in pieno il pensiero in musica della band.
Protagonista unica è qui la melodia: ottimi gli innesti AOR che donano morbidezza ed eleganza alle linee melodiche, rendendole ancor più appetibili.

Dopo aver giocato con le atmosfere e rispolverato gli ardori di un passato che fu, gli Eden’s Curse rompono quindi gli indugi, sfornando una doppietta molto convincente. “Unbreakable” e “Fallen From Grace”, dalla struttura totalmente agli antipodi, mostrano come comune denominatore una ottima profondità di espressione.
Botta di vitalità la prima: divertente e coinvolgente mid tempo, è la connessione tra melodia e potenza che, nonostante i ritmi serrati ed aggressivi, non perde di quell’eleganza capace di contraddistinguere il songwriting dei nostri.
 “Fallen from grace”, è invece la prima ed unica ballad: intima e struggente, vive nel refrain il suo momento emozionale più alto. A conti fatti, uno degli episodi migliori dell’album.

Come detto in precedenza, il disco è molto lungo: il rischio è, come evidente, di imbattersi pure in qualche passaggio meno incisivo rispetto ad altri.
È il caso, ad esempio, di “Losing My Faith” e “Rock Bottom”, due episodi piazzati nel mezzo apparentemente proprio per allungare il minutaggio. Due canzoni che fanno l’onestissima figura dei “gregari”, ma che ben difficilmente potranno essere considerate qualcosa più che semplici riempitivi.
Per fortuna si ritorna a picchiare duro con un’altra coppia di livello: “Great Unknown” e “Turn the Page”, sono due momenti simili dal punto di vista strutturale, buoni nel mettere in evidenza gli aspetti del sound più oscuri ed intriganti in possesso di Logue e compagni: la componente metal torna a farsi sentire con tutte le sue forme di espressione ed è il risultato è di sicuro effetto ed affidamento.
“Sign of the Cross” arriva poi a spolverare il decimo scalino della tracklist, mettendo a segno quello che parrebbe davvero essere il miglior passaggio dell’intero album: Hard Rock dall’approccio 80’s, ruvido ed aggressivo, cantato e suonato in maniera esemplare.

C’è veramente di tutto in questo “Symphony of Sin”: lo avremmo definito imperdibile se solo il finale si fosse rivelato più ispirato.
Gli ultimi tre pezzi, nella loro cronologia esatta, ”Wings to Fly”, “Devil in Disguise”, “Where Is the Love ?”, in effetti, non tolgono e non aggiungono nulla rispetto a quello che si è ascoltato in precedenza.

Se “Wings to Fly” e “Where Is the Love” tutto sommato mantengono inalterato il livello compositivo, con “Devil in Disguise” i nostri “ciccano” totalmente il bersaglio, inserendo una traccia del tutto estranea al mosaico creato sin qui. Una canzone violenta ed assolutamente forzata che non riesce proprio a convincere.
Un peccato sicuramente veniale, che comunque non mortifica o danneggia più di tanto il gran lavoro svolto da questi talentuosi ragazzi.

Un disco bello e di buona prospettiva insomma.
Di sicuro qualcosa è da rivedere, soprattutto nel minutaggio complessivo un po’ esagerato: particolari da affinare in quello che è, in ogni caso, un altro passo in avanti nell’attesa della vera e propria consacrazione.

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