Recensione: Syndestructible
1965. Mentre i Beatles troneggiano incontrastati all’apice del loro successo, nei sobborghi di Londra due giovani musicisti cercano di concretizzare un sogno condiviso da migliaia di ragazzini di belle speranze: suonare in una rock band. E una rock band nasce, scrive qualche canzone, si esibisce dal vivo a fianco di celebrità del calibro di Jimi Hendrix, Pink Floyd e Cream, e infine si scioglie. Il tutto nello spazio di un paio di anni. Il nome di quella band è The Syn, e i nomi dei due ragazzini sono Chris Squire e Stephen Nardelli. In seguito, il primo metterà il suo basso al servizio di un’idea chiamata Yes – un’idea destinata a lasciare un segno indelebile nella storia del rock – il secondo abbandonerà invece il microfono per tuffarsi a capofitto (e con successo) nel campo dell’imprenditoria.
2000. Chris Squire decide di donare nuova vita a un progetto consumatosi prematuramente. Richiama Nardelli, il quale si dimostra entusiasta di impugnare nuovamente il microfono, e assolda nella nuova line-up i gemelli Stacey – Paul alla chitarra, Jeremy alla batteria – accompagnati da Gerard Johnson alle tastiere. Prepara anche una ristampa dei vecchi pezzi della band, The Original Syn (2004), seguita a breve distanza da un singolo inedito. Infine, sei anni dopo l’inattesa reunion, esce Syndestructable, disco di debutto di una band ormai quarantenne.
C’è qualcosa di nuovo e qualcosa di vecchio in questo insolito esordio, sia per quanto riguarda le figure dei suoi autori, sia in riferimento ai suoi contenuti. A fungere da trampolino di lancio per le penne di Nardelli e Squire non sono tanto gli anni sessanta, quanto piuttosto le tre decadi di esperienza del rock progressivo, in particolar modo sinfonico, che hanno visto stabilmente il bassista degli Yes dalla parte dei protagonisti. Non manca d’altronde un diffuso contributo psichedelico, mentre le melodie si dimostrano subito inclini, per orecchaibilità e immediatezza, a vestirsi dei comodi abiti del pop romantico. Dal canto loro i brani non prestano molta attenzione al cronometro, e si profondono placidi in tutta la loro garbata eloquenza fino a sfondare con facilità il tetto degli otto minuti.
Ad aprire le danze ci pensa l’incantevole Some Times, Some Days, preceduta da una breve intro a cappella. Romantica, sognante, nostalgica, si distende placida su un tappeto ritmico regolare e avvolgente, esaltandosi in un chorus pacato ma passionale, che rieccheggia l’anima degli Yes in un arazzo di backing vocals d’eccezione. Si tratta probabilmente del miglior pezzo del disco, e se gli altri brani continuassero fino in fondo sugli stessi livelli forse saremmo qui a parlare di un nuovo capolavoro del prog rock Invece proprio al momento del singolo apripista Cathedral of Love i toni iniziano a scemare, con grande rammarico di chi scrive. Beninteso, ogni nota è al posto giusto, il break strumentale mediano impeccabile, il crescando finale senza macchia. Tuttavia le melodie cominciano a suonare un po’ troppo ampollose e dolciastre, il ritornello si rivela facile da memorizzare quanto ad annoiare, e l’armonia finora creata si esaspera fino a rompersi. Proprio il singolo finisce così per rivelarsi il passaggio meno convincente dell’album, il paradigma dei suoi eccessi e delle sue debolezze.
Fortunatamente però la situazione migliora già con City of Dreams, capace di farsi perdonare gli eccessi di buonismo musicale con un’abbondante manciata di tocchi di classe in cui si rivede tutta l’esperienza del pilastro del prog settantiano; mentre la conclusiva The Promise distende i toni riavvicinandosi a tratti agli standard di eccellenza della prima traccia. La matrice pinkfloydiana si fa qui più evidente, e il pezzo resta a lungo sonnolento prima di essere bruscamente risvegliato dal chorus principale, che riprende il tema dell’intro Breaking the Walls, concedendosi anche un gustoso break di sapore jazzistico.
Discorso a parte per l’atipica e piacevole Golden Age, unico pezzo dominato da reminescenze rock di matrice chiaramente sessantiana (The Who in primis), e per la breve semi-strumentale Reaching Outro, con uno Squire indiscusso protagonista a togliere le ragnatele come lui sa fare dalle corde del proprio inconfondibile basso.
Certo, terminato l’ascolto sarà bene munirsi di spazzolino e dentifricio, onde scongiurare il pericolo di carie. La mielosa armoniosità dei brani viene infatti raggiunta, superata e persino doppiata dall’ottimismo edulcorato delle liriche, intente a sbrodolare dal primo all’ultimo minuto le massime più banali del repertorio dei figli dei fiori. Ma non si può certo ostracizzare un album solo per i testi, così, tra un “Peace, love and understanding” e un “Open your heart, love is everywhere”, non resta che rassegnarsi e concentrarsi sul discorso musicale.
E da questo punto di vista si può dire che, paradossalmente, alla fine dello zuccheroso ascolto resta una punta di amaro in bocca, perché le potenzialità per essere un vero capolavoro questo disco le aveva tutte, e invece a tratti finisce per bearsi un po’ troppo di se stesso, suonando talvolta ridondante più che prolisso, incapace di osare quel tanto che sarebbe bastato per farne un autentico capolavoro. Ma tutto sommato un rimprovero come questo suona fin troppo pignolo e severo, a maggior ragione se rivolto a chi, dopo una carriera all’ìnsegna dell’intraprendenza (in un campo o nell’altro), non ha davvero più nulla da dimostrare. Dunque gli appassionati possono andare a colpo sicuro: Syndestructible si dimostra un album di alto livello, elegante e raffinato, degno figlio dei suoi creatori.
Tracklist:
1. Breaking Down Walls (0:51)
2. Some Time, Some Way (7:56)
3. Reach Outro (3:38)
4. Cathedral Of Love (8:58)
5. City Of Dreams (9:38)
6. Golden Age (8:07)
7. The Promise (13:28)