Recensione: Synestesia
Gli Stati Uniti, oltre a essere… migliaia di cose, sono anche la patria del technical death metal. Il movimento appare con una certa consistenza anche in Canada e Francia, oltre a essere diffuso un po’ dappertutto, ma è negli States che il genere o meglio sottogenere si sviluppa continuamente, evolvendosi via via verso forme sempre più complesse. A volte troppo, complesse.
Gli Odious Mortem, fra gli act più noti, sono venuti alla luce nell’ormai lontano 1998. Rappresentando, per questo, una forma evolutiva a lungo raggio ricca di tradizioni ma anche di improvvisi scatti progressisti; pur osservando che il loro terzo album, “Synestesia”, cioè quello in esame, giunge a distanza di tredici anni da “Cryptic Implosion”.
Il che significa che nel disco si trovano assieme, miscelati per bene, elementi che rimandano a usi e costumi del death metal classico, e a spruzzi di modernismo. Un lavoro, quindi, che esula dal technical nudo e puro ove, spesso, la gara non è fra chi cerca di dare alle stampe il miglior album possibile, ma quella a chi arzigogola meglio di tutti. Così facendo, invece, i Nostri riescono ad arrampicarsi su vette di tecnica di altissimo lignaggio; tecnica mai fine a se stessa.
Lontani da meri esercizi autocelebrativi e, soprattutto, liberi di esprimersi con libertà, i quattro di San Francisco si sono potuti così concentrare su un sound da considerarsi, in primis, assolutamente devastante. L’aggressività del roco growling di Anthony Trapani è perfetta per assaltare le membrane timpaniche, impotenti a resistere a un attacco frontale massiccio e compatto come il granito. Un vero pugno in piena faccia, insomma, prima che un’operazione di cesello. Operazioni di abbellimento che i chitarristi Dan Eggers e KC Howard non si lasciano certo sfuggire, inserendo voli solistici di grande classe all’interno di un riffing mostruoso come difficoltà esecutiva ma anzitutto come estrema varietà di composizione. Come accade di norma nel death metal sono le asce da guerra le maggiori responsabili del muro di suono che la band riesce a generare con la forza e potenza dei propri componenti. E così è. Tuttavia, occorre rimarcare che la anche la sezione ritmica segue il leitmotiv del combo californiano, e cioè la ricerca di una struttura di base che sia soprattutto possente, erculea, in grado di proporre un continuo apporto di energia agli speaker. KC Howard, pure batterista, assieme al suo compagno il bassista Joel Horner, bada molto alla forma ma anche alla sostanza nel restituire una forza motrice complicata, mai uguale nel disegno dei suoi regimi rotazionali ma dannatamente efficace nel bombardamento a tappeto (‘Eagle’s Tower’).
Un stile che bada sia alla componente energetica, sia a quella eminentemente tecnica in egual modo, regalando a chi ascolta – almeno a parere di chi scrive – un technical death metal di grande sostanza e spessore. Le canzoni si susseguono con impressionante continuità e consistenza, senza dare un attimo di tregua nella loro tremenda praticità. Mai un passaggio a vuoto, mai un calo di tensione, ma solo musica, musica e musica. Certo, si tratta di un qualcosa che per essere digerito e quindi apprezzato in ogni sua sfaccettatura richiede tempo e pazienza ma, alla fine, non si potrà che godere di una qualcosa che non si trova ovunque, in questi ultimi anni ove, al contrario, la rarefazione del sottogenere di cui si tratta ha, a volte, raggiunto elevati valori di… non-sense.
Gli Odious Mortem, invece, badano anche al sodo e non solo al loro evidentissimo talento esecutivo. Il che non è merce di tutti i giorni, qui.
Daniele “dani66” D’Adamo