Recensione: Systematrix
Sono passati quasi vent’anni da quell’autunno del 1994, periodo d’uscita dell’ottimo e sottovalutato “Visions And Reality”, piccolo gioiellino di prog europeo sfornato dagli – allora – newcomers Ivanhoe.
Un nome, quello capitanato dal bassista Giovanni Soulas e dall’istrionico singer Andy B.Franck, che era riuscito a ritagliarsi nel breve volgere di un paio di album (da ricordare anche il successivo, altrettanto delizioso, “Symbols Of Time”), uno spazio di riguardo nel magmatico scenario progressive dell’epoca, anni in cui un gruppo di signori bostoniani usciva con quello che sarebbe divenuto un classico universale ed assoluto e l’onda lunga della melodia, mista ad aperture pompose e tempi dispari, stava diventando una sorta di trend imperativo ed irrinunciabile.
Tante proposte nuove che andavano ad assommarsi le une alle altre. Molte destinate a rimanere confinate nel limbo, qualcuna meritevole di grande attenzione. Altre proiettate verso lidi di grandeur mediatica ed ampie prospettive.
Una dimensione quest’ultima, che non è mai appartenuta agli Ivanhoe, maggiormente a proprio agio entro i canali di un’accoglienza prettamente underground e per grandi appassionati. Una prospettiva di successo che, alla luce dei nuovi risvolti intrapresi in una carriera dagli esiti altalenanti, in tutta onestà dubitiamo potrà ampliarsi ed ambire a grandi palcoscenici nemmeno ora, in questo contraddittorio e indecifrabile momento storico / musicale.
Smarrito il carisma di Andy Franck – passato nel frattempo nei Brainstorm prima e nei Symphorce poi – ed interrotto il filo del discorso all’indomani della pubblicazione del terzo album “Polarized” (disco uscito nel ’97 che lasciava già intendere un certo calo d’ispirazione), la storia della band teutonica ha intrapreso un percorso costellato da pochi momenti d’entusiasmo, arenandosi in una reunion avvenuta nel 2005 dai contenuti stilistici molto differenti: non necessariamente “peggiori”, ma del tutto difformi dalle prospettive abbracciate ad inizio carriera.
Ed è così che, tra un cambio di line up ed un passaggio d’etichetta, il quintetto del Baden Württemberg si affaccia nel mezzo di questo 2013 con un nuovo – per certi versi inatteso – album fresco di stampa, sesto in assoluto, presentandosi con una copertina già di per se emblematica di un feeling claustrofobico ed “ansioso”, in evidente antitesi con le atmosfere sperimentate in larga parte sin qui.
Ermetico, spigoloso, talvolta poco digeribile ed un pelo dissonante, “Systematrix” si profila come un album dall’anima contrastata e difficile, perennemente in bilico tra il dignitoso lavoro di un’esperta prog band di lungo corso e la tipica definizione fantozziana della “Corazzata Potemkin”.
Un momento sembra convincere. Un istante dopo pare affossarsi irrimediabilmente.
È da sottolineare come, ad oggi, lo stile in forza agli Ivanhoe non abbia più alcun tipo di radice con il prog romantico un po’ alla Dream Theater misto Threshold/Pendragon degli esordi, ma tenda piuttosto ad accomunarsi con un’idea più cerebrale e nervosa della materia che da vicino ricorda gli altrettanto seminali Fates Warning.
Merito indubbio anche del singer Misha Mang, ex Dreamscape, che in certi frangenti par rimembrare alcune sfumature di Ray Alder, pur senza assurgere ai medesimi vertici d’espressività.
Complice inoltre un impasto sonoro che vorrebbe talvolta essere sperimentale, ma troppo spesso decade in soluzioni incapaci di osare realmente, per confinarsi in ambiti tutt’altro che memorabili.
Il risultato è un album, come detto, altalenante, all’interno del quale si identificano le classiche “luci” contrapposte ad altrettante “ombre”. Un esempio valga per tutti: la composita “Human Letargo” è lampante rappresentazione di un’amalgama che ingloba dissonanze quasi fastidiose con aperture ariose e solenni, di splendida e cristallina ispirazione progressive. Un trend che appartiene un po’ all’intero “Systematrix”, disco in cui si mescolano sprazzi modernisti non propriamente vincenti (verrebbe un po’ da pensare al periodo meno radioso della produzione made in Queensryche), con sollecitazioni prog ben studiate, capaci di testimoniare come – sotto, sotto – gli Ivanhoe abbiano ancora nelle proprie penne qualche buona idea da buttare sul pentagramma.
Non tutto da cestinare in questa sesta opera prodotta da Giovanni Soulas e compari quindi. Il tentativo di ritornare in pista con un minimo di dignità è evidente e conclamato, tanto da rendere al momento inopportuni giudizi oltremodo severi per una band che, con fatica, sta cercando di rimettere insieme i pezzi di una carriera inopinatamente meno fruttifera di quanto preventivabile alle origini.
L’enfasi, la genuina carica emozionale e la verve compositiva degli esordi, sono purtroppo un ricordo sbiadito che ben difficilmente potrà tornare a manifestarsi: la presenza stessa della reincisione di “Symbols Of Time”, uno dei migliori brani del secondo album del 1995, mette in chiara evidenza la differenza nel songwriting, all’epoca molto più convincente.
Qua e la tuttavia, si percepiscono germogli di un qualche interesse che, forse, mai condurranno a capolavori inattesi, ma potrebbero comunque rivelarsi auspicio di buoni esiti futuri.
Prima di darli per spacciati insomma, aspettiamo almeno ancora un’altra uscita. Se poi gli esiti saranno nuovamente di valore incerto, potremo ritenere l’esperienza Ivanhoe conclusa in via davvero definitiva.
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