Recensione: Tales of a Pathfinder
Aspettavo con una certa curiosità questo “Tales of a Pathfinder”, secondo album dei milanesi Atlas Pain. Il loro esordio di un paio d’anni fa, nonostante qualche ingenuità un po’ naif e un carattere complessivo piuttosto derivativo, mi aveva fomentato parecchio, tanto che ancor oggi me lo riascolto piuttosto spesso e sempre con gran piacere, quindi ero curioso di sentire se il quartetto sarebbe riuscito a confermare quanto di buono fatto in passato, magari alzando l’asticella dal punto di vista della personalità.
“Tales of a Pathfinder” si sviluppa intorno a un concept dalle tinte steampunk che pesca, neanche troppo indirettamente, da un nome illustre della letteratura come “Il giro del mondo in 80 giorni” del signor Jules Verne: siamo nella Londra vittoriana, oppressa dai fumi della rivoluzione industriale sempre più incontrollata, e un sottofondo circense ci avvolge mentre Samuele, anfitrione della serata, ci accoglie come un consumato imbonitore nella sua fiera di fenomeni da baraccone, spiegandoci che stiamo per imbarcarci in un viaggio spettacolare per scoprire le meraviglie nascoste del mondo. Ogni traccia di “Tales of a Pathfinder” esplora una zona geografica del mondo e, di conseguenza, un frammento della cultura di quella zona: si passa dal Giappone dei samurai alla Scandinavia vichinga, dalla corsa all’oro degli Stati Uniti al folklore russo, passando per Nuova Zelanda e medio oriente.
Dal punto di vista musicale, i nostri non si discostano molto da quanto proposto nell’esordio, restando fedeli al loro metal sinfonico e folkeggiante dalla forte carica enfatica che pesca a piene mani da Equilibrium, Ensiferum e profuma il tutto con le possenti orchestrazioni che omaggiano le colonne sonore di Hans Zimmer. Ciò nonostante, in “Tales of a Pathfinder” si percepisce un maggiore controllo della materia prima da parte del gruppo, che si abbandona meno del solito alle melodie semplici e di facile presa che avevano punteggiato “What the Oak Left”. Questa maggiore maturità (brutta espressione, lo ammetto, ma concedetemela in mancanza di un’alternativa più soddisfacente) permette agli Atlas Pain di sfaccettare in modo più preciso gli aspetti caratteristici della loro proposta – melodie maestose e accattivanti, accelerazioni dal retrogusto black, intermezzi di folk danzereccio, cori anthemici e trionfali e sporadici sprazzi di epicità latente – andando a smorzare in un certo qual modo il tono scanzonato che nell’esordio era sempre ben presente. Con questo non voglio dire che durante l’ascolto di “Tales of a Pathfinder” non ci si diverta, anzi: quando i nostri decidono di infilare nella composizione qualche scheggia di gioia musicale si sente che non hanno perso il loro smalto. Ciò che intendo è che in questo secondo capitolo gli Atlas Pain mescolano l’immediatezza delle melodie piacione che avevano contraddistinto il loro primo capitolo a un approccio leggermente più ragionato, evitando di martellare sempre lo stesso punto ma punzecchiando, ogni tanto, anche i fianchi dell’ascoltatore con soluzioni un po’ più variegate. Emblematica, ad esempio, “Ódauðlegur”, che incede con l’aggressività di un brano viking concentrandosi su un’atmosfera tesa e minacciosa per tutta la sua durata, salvo smorzare la sua cattiveria latente con cori tracotanti e un intermezzo che prelude l’assolo più trionfale. In effetti va notata la maggiore preminenza, in questo secondo capitolo, dei cori puliti, che innalzano col loro afflato anthemico il tasso di trionfalismo di più di un pezzo.
Non manca la lunga suite, in questo caso posizionata in penultima posizione anziché in chiusura come accaduto in “What the Oak Left”, che permette ai nostri di mettere in mostra il loro amore per le composizioni più articolate e dall’intenso sapore cinematografico, ma anche in questo caso il tutto viene screziato da sfaccettature più variopinte, in cui è possibile imbattersi in fraseggi dal profumo quasi teatrale: ciò dona alla traccia un carattere di volta in volta incalzante, solenne, malinconico, beffardo e trionfale, ma sempre tenendo alta l’attenzione sull’enfasi sinfonica tanto cara ai nostri. L’album si chiude col malinconico pianoforte di “First Sight of a Blind Man”, in cui la tristezza per la fine del viaggio/spettacolo sfuma nel suono di un carillon.
Sono soddisfatto di “Tales of a Pathfinder”: gli Atlas Pain non si sono adagiati sugli allori, ma hanno confezionato un album solido, omogeneo e carico di stratificazioni e suggestioni diverse senza però snaturare quelli che erano i cardini della loro proposta. “Tales of a Pathfinder”, pur restando essenzialmente un album che punta sull’immediatezza e la facile digeribilità, non esita a spingersi un po’ più in avanti, prende quanto di buono fatto nell’esordio e lo sfrutta come sostegno per fare quel passetto che ci si aspettava dal gruppo, confermando gli Atlas Pain come una compagine da seguire con una certa attenzione. In tutta onestà devo ammettere che preferisco ancora il più immediato e per certi versi acerbo “What the Oak Left”, ma qui direi che si entra di peso nelle questioni di cuore e, come ben sapete, al cuor non si comanda.