Recensione: Tales of Madness
Old school death metal? Un (sotto)genere alla frutta? La risposta a questa domanda non riguarda il (sotto)genere medesimo bensì, come spesso accade, chi lo pratica. E chi lo pratica raggiunge un ragguardevole numero, se rapportato alle altre emanazioni death. Un numero indicativo di una irresistibile voglia di riproporre, oggi, un sound datato primi anni novanta circa, quando, soprattutto in Svezia, le band dell’allora death metal (senza old, ovviamente) nascevano come funghi sì da dar vita al cosiddetto swedish death metal, appunto.
I Wombbath, svedesi, con il loro nuovo nonché quinto album in carriera, “Tales of Madness”, fanno parte delle formazioni che interpretano in modo sostanzialmente e formalmente perfetto la vecchia scuola, anche e soprattutto perché sono nati nel 1990. Risultando, in tal modo, un ottimo punto di riferimento in materia. Carriera che ha avuto un stop lungo quasi vent’anni (1994 ÷ 2013 ca.) che, però, non ha inciso minimamente sulla qualità tecnico/artistica di un gruppo capace di sciorinare la propria musica con grande semplicità, naturalezza, scioltezza.
“Tales of Madness”, difatti, è un lavoro che mantiene intatto il flavour degli inizi della storia Wombbath. Tutto è irreprensibile, se osservato con occhio fedele alle tradizioni.
Jonny Pettersson guida l’ensemble con un roco growling, soffuso, quasi intelligibile ma assai efficace per delineare i tratti di linee vocali putride, marce, che odorano di stantio ma soprattutto di morte. Come del resto deve essere. Håkan Stuvemark e Thomas Von Wachenfeldt macinano una quantità industriale di riff, anch’essi rifiniti in maniera assolutamente coerente con lo stile suonato; arricchiti qua e là da qualche assolo ben centrato. Stile ben noto in cui, per forza di cose – secondo quanto sopra evidenziato – , non ci sono molti margini di innovazione. A tal proposito, tuttavia, è importante evidenziare che Von Wachenfeldt si occupa anche del violino e che in certe occasioni non mancano sottofondi tessuti dalle tastiere. Con che, pur non inventando nulla, quello che esce fuori dagli speaker è un sound impeccabile nella propria coerenza tipologia, arricchito di qualcosa che rende i Wombbath, bene o male, riconoscibili in mezzo alla marea di proposte similari; anche se solo e soltanto per un orecchio molto allenato nel campo del death metal. Il basso di Matthew Davidson, poi, riempie come si deve lo spazio vuoto lasciato lì dagli altri strumenti, contribuendo alla compattezza e coesione del suddetto sound. Molto interessante, invece, la prova di Jon Rudin alla batteria. Certo, si segue principalmente il tipico quattro quarti à la Dismember, ma non mancano parecchi cambi di tempo e, soprattutto, lo sfondamento della micidiale barriera dei blast-beats (nella title-track, per esempio). Insomma, alla fine qualcosa di suo il combo di Sala ce lo mette per davvero.
Contrariamente alla media di che si cimenta con l’old school, i Wombbath si rivelano inaspettatamente dei più che buoni songwriter. Seppure, anche in questo caso, la fedeltà alla linea sia il punto fermo attorno a cui ruotano i vari brani, questi ultimi hanno un qualcosa di non so che che li rende godibili e piacevoli da ascoltare. In particolar modo si segnala la semi-suite ‘Lavatory Suicide Remains’. Aperta da un morbido arpeggio di chitarra classica, la traccia si evolve via via sempre con maggiore intensità, lanciandosi come un inarrestabile treno in corsa verso limiti estremi di BPM, non dimenticandosi di infilare durante la folle corsa delle pause per movimentare l’incedere della traccia stessa. Davvero un’ottima canzone. Da accoppiare a ‘Save Your Last Breath to Scream’ per via di un’improvvisa quanto sorprendente apertura melodica.
Un gruppo dotato di talento, quindi, che si riflette interamente in “Tales of Madness”, LP che dimostra, per chiudere il cerchio, che se si hanno idee fresche e buone il prodotto finale può sorprendere positivamente, anche se inserito in un insieme che ha più poco da dire, in termini di originalità.
Daniele “dani66” D’Adamo