Recensione: Tálgröf
Il black metal è pieno di correnti e di Paesi di riferimento, la sua semplicità compositiva ne è per questo forse croce e delizia, e di esempi di gruppi inutili come di produzioni fantastiche nella loro semplicità ce ne sono a palate. Una realtà che però ha dalla sua una produzione non poi così voluminosa verso l’esterno è l’Islanda. Vuoi per la lontananza ed i costi di diffusione al di fuori dei propri confini, vuoi per la scarsa abitabilità del territorio che rende quindi più stretto il bacino da cui “pescare” talenti (di qualsiasi tipo, sportivo, artistico eccetera) non si parla mai spessissimo dell’Islanda, se non per due cose: il freddo e l’aurora boreale, come poi tutti i Paesi scandinavi per i non – metallari. Anche riguardo la passione che accomuna i lettori delle nostre pagine non è poi così vulcanica la quantità di band black metal provenienti da quest’isola, ma forse proprio questo ha generato una qualità media non indifferente, con gruppi come Zhrine o Svartidaudi per citarne un paio. E nella risma di gruppi ad alto tasso qualitativo rientrano ovviamente gli Helfró, autori dell’argomento dell’analisi di oggi, ovvero il loro secondo album: Tálgröf.
La tomba del Talmud (questo starebbe a significare il titolo del disco – il Talmud rappresenta la trasmissione orale delle leggi ebraiche) va a seguire il loro esordio omonimo del 2018: quel lavoro già aveva dato prova di un’ottima vena creativa, con suoni potenti austeri e tetri e una produzione cristallina, che però forse andava a creare un po’ troppo caos in certi frangenti.
Il disco è in uscita il 1/12/2023 sotto l’etichetta di Season Of Mist e si articola lungo una durata di 35 minuti. L’apertura è affidata ad un pezzo che già anticipa la cura nei suoni del complesso di Reykjavík: “Jarteikn” è un pezzo esplosivo, con un lavoro alla batteria a dir poco abnorme (ma questo è un marchio di fabbrica) ed un basso forte, che avvolge totalmente la traccia. “Fláráð fræði” poi segue in un tripudio di energia musicale davvero di livello alto, scelta in maniera molto oculata come primo singolo di lancio e caratterizzato da chitarre forti e sibilanti, pieno di richiami ai primissimi Emperor. Il livello del disco si mantiene su valori elevati, senza reali passaggi a vuoto e sempre mettendo in evidenza (forse troppo) le abilità dietro le pelli di Ragnar S, fino ad arrivare a “Ildi óhreins anda”, quello che è stato il secondo singolo di lancio. Anche qui poco da dire: chitarra e batteria svolgono un lavoro sublime, supportate da tastiera e basso in maniera eccelsa. Il terzo singolo, “Traðkandi blómin í eigin hjartagarði”, mette un po’ più in evidenza la tastiera, oltre alla solita batteria eccelsa, regalandoci una produzione che live può offrire uno spettacolo non indifferente.
L’unico problema dell’album forse è proprio la presenza della batteria: le qualità artistiche ed esecutive non sono in discussione, anzi, ma forse questa va fin troppo spesso a soffocare gli altri strumenti, che per essere maggiormente presenti avrebbero necessitato di un diverso bilanciamento in fase di mixaggio. Questo non significa che non si senta altro se non le percussioni, e la qualità del lavoro non viene intaccata troppo da questo sbilanciamento sonoro, ma risulta davvero un peccato: chitarre e tastiere un po’ più in evidenza avrebbero giovato molto, soprattutto dal punto di vista dell’atmosfera trasmessa.
Parliamo in ogni caso di un ottimo disco e della conferma della grande qualità artistica di questo progetto.