Recensione: Talviyö
Tutti noi sappiamo che si può mandare a quel paese una persona rimanendo composti ed educati, farlo in maniera elegante. Cosa sconosciuta a quanto pare ai Sonata Arctica, complici in concorso di colpa con l’etichetta nell’immettere sul mercato una delle più grosse delusioni dell’anno corrente. Facendo un passo indietro, i maestri del metal melodico finlandese, dopo aver inanellato quattro dischi seminali per il power metal che fu, decisero di dare una sterzata al loro stile a partire dall’anno 2007 con Unia che non poteva essere definito un bel disco, nettamente oscurato dal capolavoro precedente Reckoning Night, ma lasciava intravedere quello spiraglio di buona volontà nel non adagiarsi sugli allori ed esplorare nuove soluzioni per non diventare una band clone e derivativa di se stessa.
Da questo punto in poi la band non è più riuscita a risollevarsi a parte qualche singola canzone ben riuscita sparsa qua e la, decisamente poco considerato il fatto che dopo lo stesso Unia sono stati prodotti ben altri cinque dischi. Con Pariah’s Child e The Ninth Hour, pur essendo rigorosamente dischi mediocri, tuttavia, pareva che il quintetto di Kemi stesse cercando una nuova quadratura del cerchio perfezionando e personalizzando maggiormente la propria “nuova” proposta ma già il segnale di ri-registrare il debut album Ecliptica con un risultato scandaloso, sottolineava come la band in preda alle onde della confusione stesse cercando un’ispirazione che appariva sempre più lontana e irraggiungibile.
Come uno specchietto per le allodole Talviyö (che significa “notte d’inverno”) con la sua bellissima copertina (da sempre uno dei punti forti della band), irrompe sul mercato e taglia l’importante traguardo della decima fatica in studio, ammirevole per una band che dal nulla si è creata un piccolo impero e ha inciso nella roccia il suo nome tra le più importanti power metal band di sempre. Palese la volontà di rinnegare le cavalcate di un tempo, i registri vocali alti e i ritornelli di facile presa che stimolavano anche il più tranquillo dei nerd a indossare pantaloni in pelle e affrontare una battaglia vichinga, ormai sono solo un lontano e sbiadito ricordo che lascia spazio a sonorità blande, morbide e soffuse spesso senza né capo né coda, avvolte in una nebbia confusionaria che lascerebbe spiazzati anche i fan boy meno oltranzisti.
Di certo dopo oltre dieci anni di dischi qualitativamente poveri nessuno si aspettava un lampo di genio dei nostri e un ritorno a sonorità più consone al metal che alle filastrocche di Natale o brani simili alle ninna nanna che si canticchiano ai bambini prima di addormentarsi, ma toccare il fondo in questo modo ci lascia quel non so che di amaro in bocca con pure un alone di tristezza.
Come dicevamo all’inizio della recensione, andando per gradi, i principali imputati sono due in perfetto concorso di colpa; la band e la produzione finale. L’analisi e la critica nei confronti di questo disco non può essere effettuata scindendo queste due tematiche in quanto se uno è mediocre, l’altro affossa la mediocrità rendendola vicina al livello del pessimo.
Lo stile della bella cover art è un vero e proprio tributo alla terra madre Finlandia, rappresentando vari elementi tipici locali e, tra l’altro, uno dei simboli della band, il lupo, lasciando fantasticare i più nostalgici circa un ipotetico e improbabile ritorno a sonorità più gelide e taglienti. E c’è da dire che la opener Message from the Sun, che in origine doveva semplicemente apparire come bonus track per l’edizione giapponese, dopo una banale intro al limite dell’irritante, parte con un deciso up tempo che sfocia in un bel ritornello melodico e di altri tempi che ci fa sgranare gli occhi e accende in noi una fiammella che surriscalda l’animo e la speranza di avere tra le mani un ritorno a sonorità più consone al moniker impresso nella copertina. Anche se il brano è carino ed efficace, notiamo subito che qualcosa non quadra e a fine canzone la sensazione che ci viene trasmessa è come se il groove di questo pezzo sia una mera forzatura, come lanciare una Fiat Punto a tutta velocità per ore e ore.
I Sonata Arctica non sono novellini, sanno suonare e lo sanno fare molto bene, e subito dopo un brano che strizza l’occhio a soluzioni più datate vedono corretto inserire una coppia che rappresenta maggiormente la direzione attuale della band; Whirlwind è un bel brano rock di classe, inutile negarlo, seguito dalla ottima Cold, song dalle solide basi che affondano su un terreno tipicamente AOR, melodrammatica con un Toni Kakko che ormai risulta irriconoscibile e assomiglia maggiormente a un Jon Bon Jovi poco ispirato, svogliato e col raffreddore.
L’involuzione del simpatico singer della band ormai è una costante disco dopo disco ma mai come in questa volta si era sentito così giù di tono, sfruttando esclusivamente le tonalità medio basse, al limite del parlato, cercando di dare solo un minimo di enfasi alle strofe lasciando al cantato nasale prendere il sopravvento.
Storm of Armada si sposta verso lidi progressivi così come The Raven Still Flies with You senza mai centrare il bersaglio e figurando maggiormente come brani caotici senza un nesso logico, dove spesso ci si perde nell’ascolto e la noia ci fa spingere il tasto skip il più in fretta possibile per evitare che la pochezza delle strofe o dei ritornelli aumenti ulteriormente l’ansia nel proseguire l’ascolto.
C’è da dire che Talviyö ciò nonostante può vantarsi di annoverare nella sua cospicua track list pure due tra i più brutti brani mai scritti dalla band che prendono il nome di The Last of the Lambs e la conclusiva The Garden: di una noia e piattezza disarmante che ci si domanda il perché metterli in scaletta in quanto non possono essere classificati neppure come ballate, considerando il loro aplomb nei tempi lenti e rarefatti, ma rappresentano una lunga nenia deprimente che stanca l’ascolto prima dei trenta secondi netti.
Emblematico come uno dei migliori pezzi del lotto sia la bonus track You Want Fall; chiariamo subito che si tratta di una banalissima song di metal melodico che finirebbe ormai tra le B side di una qualsiasi band un minimo navigata in campo power, ma in alcuni frangenti, grazie alle sue linee melodiche ariose e al contempo intrise di malinconia, ricorda un qualsiasi brano meno riuscito scritto entro la prima metà degli anni 2000, soprattutto nella variabile lirica di metà canzone che si fa piacevolmente apprezzare.
Who Failed the Most e A Little Less Understanding, già noti ai più per essere stati pubblicati su Youtube come singoli, ricalcano l’andatura rock con tendenza all’estremo melodico; canzoni carine che rimangono nel limbo del canonico se non addirittura del catatonico e che si faranno ricordare per il piacevole ma innocuo ritornello la prima, mentre la seconda per la vaga somiglianza, per quanto riguarda le linee vocali e il mood, con I Have A Right del 2012, non di certo un pezzone.
Concludono la scaletta una buona strumentale e Demon’s Cage che nulla aggiungono e nulla tolgono all’economia del disco; e questo è il problema, che in Talviyö nessun brano è fondamentale o essenziale e a fine ascolto ci si rende conto di aver ascoltato una raccolta di fillers che in qualsiasi disco della band ante 2007 non sarebbero figurati neppure come bonus track per il mercato turco tanta è la piattezza.
Durante l’ascolto del disco ci si rende comunque conto che se ogni singolo brano avesse avuto dei suoni diversi in sede di mix finale e produzione probabilmente staremo parlando di un altro disco.
Da qui ci si ricollega al concorso di colpa in quanto, se la band ha ormai una pochezza di idee disarmante e cerca di navigare in acque stantie tra ammiccamenti a mercati alternativi al metal ma cercando di mantenere almeno una parte dei fan di vecchia data con qualche pezzo dal vago flavour heavy (se così si può definire), la tedesca Nuclear Blast, come accade da qualche anno in alcune produzioni da loro marchiate, danneggia irreparabilmente la resa dei dischi immessi sul mercato con dei suoni dannatamente inadeguati.
Sin dalla opener si capisce che pure in questo caso la produzione annienta completamente le chitarre che oltre essere compresse in maniera estenuante, prive di enfasi, personalità e senza corpo, nella maggior parte dei brani hanno un volume talmente basso in favore delle tastiere/orchestrazioni e del basso che risultano praticamente impercettibili. Ne deriva un sound goffo e senza mordente, con una dinamicità pari a zero che non risulta mai essere tagliente neppure quando dovrebbe esserlo mettendo in risalto quasi esclusivamente i cori che sommergono il restante operato della band trasformando anche i brani più “duri” in cantilene che invogliano lo skip convulsivo.
Questa problematica penalizza canzoni come Message From The Sun e Whirlwind che fanno suonare la sei corde come se fosse un leone in gabbia e, se avessero un mix finale differente, staremmo parlando di due pezzi, se non totalmente riusciti ma con un appeal più personale e deciso.
Le vocals di Kakko al contempo, lontane anni luce da quelle che furono anche solo dieci anni fa, piatte e prevedibili prive di dinamica, vengono alzate sopra di tutto al limite del fastidioso con quella loro tonalità monocorde.
Difficile tirare le somme su un disco del genere, che rappresenta una collisione tra poca ispirazione, noia e staticità compositiva da parte della band, aggravato da una produzione che definirla brutta è un eufemismo, in quanto abbiamo sento dischi autoprodotti che suonano meglio di questo.
Talviyö può essere definito come un disco confusionario dove non si riesce a capire l’effettiva direzione che vuole prendere la band; contiene una manciata di brani che raggiungono la sufficienza ma altrettanti che rasentano il pessimo. Qualche sprazzo di lucidità si intravede così come qualche simpatica melodia ma nulla di più, davvero poco per una ex “next big thing” che ha scritto capitoli importanti di un genere che sembra quasi rinnegare e che non è più capace di scrivere i brani di un tempo. Se poi il tutto viene aggravato da una delle produzioni più brutte sentite negli ultimi anni il danno irreparabile è compiuto.
Con profonda tristezza rimane solo un filo di speranza, ossia che il quintetto, che continua a percorrere il suo trend negativo e pare davvero sia entrato in un limbo, riesca a ritrovare la retta via compositiva grazie a un’illuminazione divina e che al prossimo giro la produzione non affossi il poco di buono espresso.