Recensione: Tarkus
Dopo lo sfolgorante esordio del ’70, Emerson, Lake e Palmer tornano sulle scene con un disco incredibile ma maggiormente discontinuo rispetto al predecessore, si tratta di uno dei primi album rock ad includere in scaletta una vera e propria suite, ovvero i venti minuti circa della monumentale e bellissima “Tarkus”, composizione varia, articolata, avvincente e dinamica che racchiude e concentra in sé tutti i pregi del gruppo inglese e che esalta nel migliore dei modi le capacità dei tre. Divisa in sei movimenti, “Tarkus” narra le vicende bizzarre di una strana creatura (quella che si vede in copertina) alquanto bellicosa, ma nasconde nei propri testi una neppure troppo velata polemica nei confronti della politica interventista americana nel Vietnam ed in generale nei confronti della situazione di costante tensione della Guerra Fredda. Cosa dire di “Tarkus”? Il brano in se è indescrivibile ed alterna momenti di monumentale magniloquenza ad altri di maggiore dinamismo e semplicità, mantenendo però sempre un grande equilibrio e la sufficiente misura, evitando così di annoiare o di portare all’eccesso l’autocelebrazione dei tre musicisti. Emerson, essendo il titolare dello strumento guida, mantiene un ruolo leggermente egemone, ma non prevarica praticamente mai i due compagni e rivendica solo pochi sprazzi di totale libertà espressiva, consentendo così alle lunghe parti strumentali di essere più articolate ed avvincenti. Da solo “Tarkus” giustifica l’acquisto dell’album, merita un applauso scrosciante ed induce ad una sconfinata ammirazione per il trio, per cui la recensione potrebbe anche finire qui, ma non sarebbe giusto, giacché altri sei brani meritano di essere in qualche modo ricordati. La traccia numero due di “Tarkus” è “Jeremy Bender” e dopo la suite che l’ha preceduto non può che sfigurare, vista la sua natura. Si tratta di un brevissimo brano sorretto da un poco avvincente tema di piano honky tonk e da una atmosfera quasi western e questo non depone necessariamente a suo sfavore, ma forse stona un po’ con la monumentalità ingombrante del “lato A”. “Bitches Crystal” risolleva decisamente la situazione e riaccende l’attenzione con una carica energetica più convincente, ma anche con la sua capacità di alternare pianoforte e sintetizzatori in maniera abbastanza avvincente, mentre la parte vocale risulta aggressiva e poco orecchiabile, ma anche piuttosto originale. “The only way” introduce una timbrica organistica e porta Emerson ad eseguire un brano dall’afflato vagamente mistico su cui Lake canta un testo in linea con le atmosfere generali del pezzo, ma ecco che un ben più terreno assolo di piano modifica radicalmente le coordinate musicali, mentre Lake si adegua solo parzialmente. “Infinite space” prosegue quasi senza soluzione di continuità il discorso della traccia precedente ma si muove su di un terreno più fisico e materiale, con il piano sorretto dalla sezione ritmica, ma non molto resterà impresso di questo brano. “A time and a place” ci riporta agli ELP che fanno un efficace gioco di squadra e che imbastiscono una canzone sufficientemente energica, ben strutturata ed anche abbastanza graffiante, ma a dir la verità anche qui il ricordo di quanto espresso nella suite impedisce un giudizio sereno e distaccato sulla qualità del brano in questione. La conclusione dell’album è affidata ad “Are you ready Eddy?” un simpatico ed ironico rock’n’roll pianistico dedicato ad un membro dello staff del gruppo. Con questo brano scanzonato, irriverente, volutamente sgangherato e sbilenco si chiude il secondo album del gruppo inglese ed il giudizio complessivo sul lavoro non può che essere ampiamente positivo, benché salti agli occhi una certa asimmetria qualitativa tra la suite che da il titolo al disco ed i restanti brani. Il consiglio finale è quello di dare un ascolto approfondito a tutto il cd e valutarne l’acquisto, ma penso che la sola “Tarkus” giustifichi ampiamente i dieci Euro chiesti in negozio.