Recensione: Tattooed On My Brain
Dopo la recensione, redatta del sottoscritto, dell’ultimo, bellissimo lavoro degli eterni Uriah Heep, si è deciso, in questa fase, con il prode caporedattore di TM Fabio, che il vostro scrivente recensore – anche per tristi questioni anagrafiche – sia in questo periodo addetto a quello che abbiamo ribattezzato “geriatric rock”. Pertanto, nell’ambito del lotto del mese di ottobre della benemerita Frontiers, proprio a chi vi scrive tocca il nuovissimo album degli altri highlander Nazareth.
C’è poco da ironizzare, in realtà, su questa schiera ancora assai operativa di canuti rockers, vista la capacità di costoro di produrre dischetti in grado di dare dei punti a tanti giovinetti peraltro spesso loro imitatori. E pensare che già ai tempi in cui il vostro recensore si è cominciato ad approcciare al rock (tanto, tanto tempo fa), di questi artisti già si parlava come di dinosauri ormai desueti e pronti ad essere schiacciati dalla incombente tempesta punk!
I Nazareth, si diceva. La band scozzese festeggia, in questo 2018, ben cinquanta anni di storia. Essi, infatti, hanno iniziato il proprio lungo cammino del lontano e fatidico 1968. In questi cinque decenni la band ha prodotto tanti album e tante hit, di cui ricordiamo almeno “Razamanaz” del 1973 e “Hair of the Dog”, di due anni più vecchio. Persino gli ignari di questioni di rock, poi, avranno ascoltato, anche di recente, la loro cover della ballad Love Hurts, persino inflazionata tra spot e colonne sonore.
Naturalmente, la line-up di oggi, che ci propone il nuovissimo “Tattooed On My Brain”, è ben diversa da quella degli esordi e delle opere più celebri, e vede, insieme all’unico membro fondatore rimasto (il bassista Pete Agnew), Jimmy Murrison (da lunga pezza chitarrista della band), Lee Agnew (batteria) e, per la prima volta su disco, il nuovo cantante Carl Sentance. Carl, ben noto e stimato per aver prestato la sua ugola d’oro a Don Airey e ai Persian Risk, ha rimpiazzato dal 2014 lo storico vocalist Dan McCafferty, in pensione dai Nazareth per ragioni personali.
Il risultato della chimica tra questi esperti musicisti? Sorprendentemente energico e vitale, come si dimostra fin dall’iniziale Never Dance With The Devil, ingioiellata dai riff rotondi e dagli assoli della chitarra e dalla voce impostata e energica. Con gioia i Nazareth sciorinano il loro suono fatto di blue collar rock “hardizzato” e spruzzato a volte di blues e dintorni, dimostrando per l’ennesima volta mestiere e divertimento. In questo full-length ci sono ben tredici canzoni, ma si registrano ben poche (anzi nessuna) cadute di tono. Si pensi a Crazy Molly, un hard rock affilato e di classe o a Don’t Throw Your Love Away, graffiata da riffoni della sei-corde e dai una voce che s’arrampica sui toni alti e s’inoltra in territori AC/DC, e ancora State Of Emergency, arrembante e divertita e innervata da assoli fulminanti.
Non mancano, naturalmente, le influenze blues, le quali impreziosiscono canzoni come You Call Me, intenso bluesaccio finale, lento e notturno, Push, indolente brano da manuale dell’hard blues, e la più patinata Silent Symphony.
Se Change, poi, è un lento rock metropolitano scandito da un efficace giro di basso, la prevalenza di atmosfere nel disco è comunque per brani scanzonati, vivaci, conditi e non di cadenze roots. Si prenda, ad esempio, la title-track Tattooed On My Brain, ruspante, frizzante ed energica, Rubik’s Romance, una sorta di pop-country- rock orecchiabile e spumeggiante e , ancora, Pole To Pole, hard’ n’roll boogie divertente ed un tantino vicino a certi Status Quo.
Con “Tattoed On My Brain”, insomma, i Nazareth meravigliano per l’energia, di divertimento, il mix calibrato di spontaneità ed esperienza di cui sono abbondantemente capaci.
Tutto ciò, a dispetto di chi li considerava “superati” decenni fa, e di tutti i generi succedutisi nel cuore di critica e pubblico (il punk, la new wave, il thrash e l’hair metal, il grunge ed il post-grunge…). Tutti generi meravigliosi, e tutti ormai considerati, in prospettiva, classic rock (o…geriatric rock?) come quelli che li hanno preceduti.
Francesco Maraglino