Recensione: Tearing Down The Walls

Di Fabio Vellata - 26 Aprile 2014 - 0:01
Tearing Down The Walls
Band: H.E.A.T
Etichetta: earMUSIC
Genere: AOR  Hard Rock 
Anno: 2014
Nazione:
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88

Da sempre, quando, tra fan ed addetti ai lavori, si subodora la presenza di una grande band, si dice che “il terzo album è quello determinante”.

Il primo, pur se annaffiato da talento “vivido”, può essere frutto di un’imprevista amalgama che, complice un po’ di fortuna, qualche aiuto esterno ed un po’ di coincidenze, arriva come un fuoco d’artificio e lascia a bocca aperta.

Il secondo, vive sulla scorta riflessa del primo. Fatto il botto, si cerca di goderne ancora per qualche tempo i benefici, mantenendo salda la rotta che ha offerto esiti soddisfacenti. Magari tentando di raffinare le imperfezioni primigenie, alla ricerca di una traiettoria che sappia amplificare quanto di buono realizzato in precedenza.

Il terzo “determina”. Dopo i primi due capitoli, l’esame è cogente.
Trascorso l’effetto sorpresa e sfruttati gli esiti successivi, o “ci sai fare” davvero o inizi ad imbarcare un po’ d’acqua.
O il talento c’è sul serio, è cristallino e consente di perpetuare la magia, rinnovandosi con un marchio di fabbrica ben chiaro, oppure le prime crepe iniziano a manifestarsi, offrendo un risultato forse dignitoso, ma destinato a perdere quota per rientrare nei ranghi di una sommessa routine che vive di gloria riflessa. E difficilmente colpirà ancora come sotto l’effetto dell’esuberanza iniziale.

Quando però, il capitolo è il già il quarto, gli esiti sono sempre da “premier league”, la miscela continua ad essere esplosiva e gli elementi seguitano a legarsi tra di loro a comporre un quadro di canzoni che cattura, fa sognare e regala emozioni…beh, non ci sono più dubbi…ecco un fuoriclasse.

Una storiella un pizzico scherzosa per raccontare il percorso degli H.E.A.T., band svedese che nell’arco di pochi anni è divenuta un caposaldo pressoché imprescindibile per gli amanti delle sonorità melodiche di matrice eigthies, dotate di un flavour ricco di positiva vivacità e di molte buone vibrazioni, alla faccia di un periodo storico che ci vorrebbe tutti tristi ed incazzati per un’esistenza costellata da innumerevoli ostacoli e traversie.
Ce li ricordiamo ancora, nel 2008, quando abbiamo fatto la loro scoperta, offrendo la recensione dell’esordio omonimo uscito per una piccola label indipendente.
Un diamante grezzo che riluceva di tonalità calde come l’estate, riportando in vita sensazioni legate a vent’anni prima: già allora, con il brillante Kenny Leckremo alla voce, la band svedese aveva destato attenzione massima, tanto da meritarsi l’appellativo di “nuovi Europe”.

Oggi, a distanza di sei anni, dopo un avvicendamento al microfono da alcuni visto come “pericoloso” e tre dischi in archivio – uno più bello dell’altro – ci troviamo nuovamente a sorprenderci per l’eleganza con cui questo quintetto nordico piazza l’ennesimo colpo grosso in carriera, rimanendo stupiti per la naturalezza con cui, i suoni intensi e luminosi dell’AOR di scuola scandinava, vengano ripresi con tanta ricchezza ed emozionante semplicità. Tanto da farne apparire la formula, ancorché frutto di una evidente meditazione, come spontanea e figlia diretta di un’epoca perduta.

“Tearing Down The Walls”, muri che vengono abbattuti a colpi di melodia ed hookline strappa-orecchie: le classiche canzoni che deliziosamente s’inseriscono nei padiglioni, girano al loro interno per un po’, dopodiché, come dardi scagliati con millimetrica giustezza, vanno a piantarsi in testa, producendo il più tipico degli effetti tormentone. Non mollano più e, a ritmi regolari nell’arco della giornata, si ripropongono come un inesorabile loop infinito.
Un flash back che sconfina nel romanticismo di un periodo d’oro per questa musica, com’era quello di trent’anni fa. Non molto tempo addietro, un saggio sentenziò: negli eighties, questo era ciò che sarebbe passato alla radio come Pop e magari, gli H.E.A.T sarebbero capitati su di un palco di qualche show televisivo. Purtroppo l’epoca è grama e tocca accontentarci di ascoltarli a tutto volume, cercando improbabili – per quanto nemmeno assurdi – riferimenti alla musica commerciale e d’intrattenimento odierna.

Poco male via, ammettiamolo.
Una partenza come “Point Of No Return” è già da par suo deflagrante. Il ritmo, la struttura, la ricercatezza di suoni e particolari sono figli strappati ad un periodo in cui la cura per aspetti analoghi era uno dei punti di forza assoluti su cui poggiare il successo. La melodia poi, non lascia dubbi: un bel brivido che corre su e giù per la spina dorsale, mettendo in fila Europe, Treat, Firehouse e Giant, con l’interpretazione del sempre più convincente Mr. “X Factor” Erik Grönwall a condire un attacco sfavillante.
Se poi di qualcosa “che entra in testa e non se ne va più” vogliamo discutere, l’esempio di “A Shot Of Redemption” si manifesta come illuminante. Due-ascolti-due, dopodiché la cantilena “I’ve been hiding for far too long, seems like forever…” che introduce il brano su ritmo sincopato, diviene una sorta di mantra che si richiama di continuo. Un pezzo delizioso, che un po’ rimembra lo stile americano di fare rock melodico appartenuto a Damn Yankees e Tangier (chi se li ricorda?).

Lo stile sleaze di casa in terra svedese si concretizza quindi con la rocciosa “Inferno”. Non sono lontani Crashdiet e Crazy Lixx: la differenza sta in un ritornello che squarcia il cielo e saetta indietro nel tempo, aprendo le arene come accadeva ai tempi del grande Bon Jovi.
C’è poi l’inevitabile momento ad ampio respiro, come il canovaccio del migliore rock d’annata esige. La title track, pezzo fondato su di una armonia morbida e modellata attorno alle corde vocali di Grönwall, è momento di classe che prelude al passaggio considerato come più controverso di questo quarto album made in H.E.A.T, : “Mannequin Show”.
Vero, la somiglianza della linea base con quella di un noto successo di una certa Britney è a tratti imbarazzante. Eppure, al netto di una formula sin troppo easy listening, non mancano d’emergere anche in questo caso i lati migliori del combo nordico, concentrati in un equilibrio marcato tra piacioneria da classifica e tonalità AOR e, soprattutto, ancora una volta nelle corde vocali di Grönwall che, a differenza della patinata starlette, non gracida in maniera improbabile ma “canta” per davvero, lasciando scorrere con sicurezza la propria voce sulle note del brano.

Magari ne avremmo fatto a meno, tuttavia i dubbi sull’opportunità di una canzone tanto “pop” scivolano presto alle spalle quando a profilarsi è la stupenda “We Will Never Die”. Ed ecco una valanga di classe luminosa, eleganza cromata e fascino vellutato: tanta melodia in una hookline dai sapori caldi come l’estate, sublimati in un inciso che rende lustro alla bravura dell’ottimo Eric Rivers, chitarrista dotato d’indubitabile buon gusto.
Tornano Europe e Treat in “Emergency”, passaggio in cui la maggiore presenza di tastiere delinea una traccia che, non nascondendo una profonda anima ottantiana, si dimena prima dello slow “All The Nights”, unico frammento davvero soffuso del cd, caratterizzato da un’atmosfera intima in cui piano e voce assurgono al ruolo di protagonisti massimi.

In tutta onestà, alle svenevolezze continuiamo a preferire la grinta di canzoni come la successiva “Eye For An Eye”, l’ennesimo passaggio che s’infila il bignami del rock melodico sottobraccio e parte alla conquista del vessillo di Joey Tempest e compari.
Ma ancora meglio il finale a tutto ritmo, saltellamenti ed enormi cori, portato da “Enemy In Me” (ancora qualcosina dei Lixx e dei Crashdiet) e “Laughing At Tomorrow”, conclusione di partita con relativo inchino agli spettatori su di un ritornello a più voci che, ne siamo certi, potrà ottenere riscontri eccelsi dal vivo.
Ci piacerebbe poi, che a qualcuno venisse voglia di dare un ascolto anche alla bonus inclusa nell’edizione per il mercato giapponese. Trixter, Tangier ma, in particolare, gli immensi Giant dell’illustre “Time To Burn” sono le fondamenta di “Shame”, brillante traccia di hard rock purissimo e polveroso: peccato non avere gli occhi a mandorla in casi come questi…!

Uno per uno, gli H.E.A.T stanno abbattendo tutti i limiti imposti dalle mode, dalle ristrettezze di un genere che non “tira” più come una volta e dal pubblico non proprio vastissimo come quello che avrebbe potuto accoglierli trent’anni fa.
Genuini talenti capitati in un’epoca ingenerosa, per Erik Grönwall, Eric Rivers e compagni, saremmo probabilmente a parlare di potenziale disco d’oro se i tempi fossero quelli in cui AOR e Hard Rock scorrazzavano in lungo e in largo per le charts di mezzo globo.
Oggi non c’è verso ed i “magnum opus” come “Tearing Down The Walls” sono destinati ad un pubblico di selezionati conoscitori che, per la quarta volta nell’arco di pochi anni, s’inchineranno al talento cristallino di una band sorprendente, ormai divenuta caposaldo imprescindibile per chiunque provi passione per melodia, classe ed eleganza, miscelate insieme in un’unica soluzione.

H.E.A.T: ai confini del paradiso…

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