Recensione: Tears of a Clown
‘Tears of a Clown’ è il terzo album dei Syr Daria, band francese ben consolidata e compatta, visto che in dodici anni nessun componente se ne è andato, è stato sostituito, ha deciso di dedicarsi all’agricoltura od a qualche disciplina orientale ecc.
Non solo, il quartetto originale ha deciso di aumentare il tasso metallico assumendo un nuovo bassista (Pascal Husser degli Heavynessiah), sgravando così Guillaume Hesse da tale compito, in modo da dedicarsi unicamente al suo ruolo primario di vocalist.
‘Tears of a Clown’ è un album di massiccio Heavy Metal, basato sostanzialmente sulla dinamica delle chitarre, che intrecciano interessanti giochi ritmici e melodici, e sulla forza di una voce che sa il fatto suo.
Una buon muro sonoro dato da basso e batteria, cori anthemici piazzati a ridosso dei refrain ed assoli enfatici fanno il resto.
Il tutto è fatto bene ma senza un minimo di originalità, anzi, i Syr Daria se ne guardano bene dal proporre qualcosa di nuovo, preferendo non deviare da una strada dritta e pianeggiante che è, si più sicura, ma anche sempre uguale.
Dicendola tutta, ad oggi, in cui si può ascoltare tutto gratis, anche ‘Tears of a Clown’ merita il suo spazio, perché di episodi più che degni ne ha, ed un paio sono anche sopra le righe, ma se fossimo stati negli anni prima di You Tube, Spotify e compagnia bella, avrei consigliato ai miei amici di utilizzare il metodo dell’estrazione della pagliuzza più corta per scegliere a chi toccava comprarlo, per poi duplicarlo in cassetta.
Ripeto, l’opera ha il suo valore, ma assomiglia veramente a tanti album già usciti. Poi l’adrenalina scorre, il piede batte e la testa si muove, perché è pur sempre un Heavy Metal pregno di energia, scoppiettante con toni marziali, picchi martellanti e duri dai risvolti epici e coinvolgenti. A questo si aggiunge una valida preparazione tecnica, un saper scrivere musica ed un saper mettere a frutto l’esperienza maturata durante il proprio percorso. Di fatto non c’è niente che non vada, se non il ripetere una formula che non sarà mai stantia, ma che gioca troppo sul sicuro, un po’ alla ‘… vuoi vincere facile …’.
Parlando dei brani più significativi, che non sono pochi, l’iniziale ‘In the End’ (?) è un classico d’apertura: partenza marziale ed epica che prende forza, gran movimento di batteria e chitarre che variano tra il suonare in sincrono ed in asincrono, con un refrain a più voci che prende.
Le seguenti tracce rispettano il testo del buon produttore di album Heavy Metal: ‘Virus’ è più tosta e veloce mentre ‘Elm Street’ è cupa, con strofe lente e malinconiche, seguite da altre più dure e massicce con intersecati cori diretti e spicci, un po’ scontati, a dir la verità, ma non male.
Anche ‘Tears of a Clown’ è da manuale: è la Title-Track, qualcosa che la evidenzi deve averlo; in questo caso un carillon che va a stonare che anticipa una sezione che più Iron Maiden non si può. Poi parte la traccia vera e propria, dura, dinamica e trascinante, con uno stacco corale e un assolo a seguire che da un’ottima impressione. Il pezzo si eleva sui precedenti: ha effettivamente un qualcosa in più.
Dopo la tempesta un po’ di tregua: siamo a circa metà disco … ci vuole!! ‘Brother’ è un brano acustico, dolce, che poi s’indurisce ed accelera. E’ un ottimo pezzo, peccato che ognuno di noi ne abbia almeno una ventina di simili nella propria discografia.
La seconda metà del platter è più pestata e con un buon tiro. Ha la sua massima espressione in ‘When the Roses Fade’, marziale, epica con un bel gioco di Twin Guitar; è il pezzo che, a parere di chi scrive, lascia il segno più profondo.
La conclusione spetta a ‘Randall Flagg’, neanche a dirlo un brano veloce e adrenalinico.
Concludendo, se mettiamo da parte la mancanza di originalità, lo sforzo fatto dai Syr Daria ha dato i suoi frutti e ‘Tears of a Clown’ lo si ascolta volentieri. Dovrebbero solo osare di più, perché i numeri ci sono.