Recensione: Tekeli-Li

Di Daniele D'Adamo - 19 Dicembre 2015 - 18:00
Tekeli-Li
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2014
Nazione:
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85

«Je ne suis pas fou. Je souhaite juste aujourd’hui prévenir le monde des horreurs indicibles qu’une nouvelle expédition dans ce désert blanc pourrait libérer. Non je ne suis pas fou. Je les ai vues ces entités rampantes, plus anciennes que les hommes, ces immondices cachées dans leur cité de pierre noire. Je les ai vues, plus grandes que tous les édifices, plus effrayantes que la mort elle-même. Je les ai vues, ces montagnes hallucinées.»

1931: Howard Phillips Lovecraft scrive il capolavoro horror “At The Mountain Of Madness”. 2014: I The Great Old Ones lo mettono in musica.

The Great Old Ones che, nati nel 2009 a Bordeaux, in Francia, si propongono come unico obiettivo quello di dare vita ai superlativi racconti dello scrittore di Providence, sin’ora onorato da due full-length (“Al Azif”, 2012; “Tekeli-Li”, 2014), un singolo (“Bachelorette”, 2013) e uno split (“Sampler MMXIV”, 2014)  con i connazionali Regarde Les Hommes Tomber, Paramnesia e Deuil.

I The Great Old Ones, come del resto i gruppi appena citati, fanno parte della moderna corrente di black metal francese che, prendendo parecchi spunti dal post-black, propongono un nuovo passo evolutivo per il genere stesso. Manifestando con ciò una rilevante capacità compositiva, scevra e allo stesso tempo fedele ai canoni classici della foggia originale.   

L’orrida avventura che i Nostri vivono con “Tekeli-Li” dà già i brividi sin dall’inizio, scandito dai lugubri violoncelli di “Je Ne Suis Pas Fou”. Poi, il pesantissimo, claustrofobico, asfissiante incipit di “Antarctica” si fa strada fra i ghiacci del circolo polare antartico. Ma è questione di pochi minuti, che la velocità diverge in direzione della pazzia dei blast-beats, mulinati dal furibondo Léo Isnard. Il quale, una volta di più, dimostra che la componente umana, nel drumming del black metal, è imprescindibile per donare al medesimo tutta l’energia, la forza dirompente, la devastazione di cui ha bisogno per attivare la ghiandola pineale. I riff di chitarra, allora, si lanciano alla rincorsa delle ripidissime erte che portano all’altopiano ove giace l’impossibile città di pietra. Riff che, a piene mani, pescano la loro drammatica progressione dai dettami armonici del post-black. Le pause, i rallentamenti, paiono strategici per rifiatare lungo gli scoscesi sentieri che conducono alle Montagne della Follia e al loro  culmine appiattito. Il mood, tuttavia, è da incubo. Foriero di pessimi presagi. Premonitore di qualche indicibile mostruosità che attende, là, seduta nell’ombra. Il ritmo aumenta via via di più, l’aria manca, la sensazione di stordimento aumenta. Il black dei transalpini è ipnotico, trascinante, irresistibilmente avvolgente. Il malinconico pianoforte che apre “The Elder Things” prepara la mente alle lisergiche visioni del titanico altopiano e di ciò alberga in esso. Le valanghe dei blast-beats travolgono ogni forma di resistenza mentale, alimentano l’ansia per ciò che si percepisce e non si vede, le chitarre non smettono mai di disegnare assurde geometrie non-euclidee. Le quali, poi, altro non sono quelle riconducibili alle incommensurabili costruzioni dell’antichissima civiltà pre-umana che ha eretto la pazzesca città. La potenza dei The Great Old Ones è assolutamente allineata ai vertici del genere. Grazie, anche, al continuo bombardamento operato dal basso di Sébastien Lalanne. Lo stridore di asimmetriche disarmonie aliene risveglia dal torpore da freddo, quando è il momento di “Awakening”. L’incedere doom perfeziona questa penetrante sensazione di non esser più soli, durante il cammino nel regno dei ghiacci, osservando strutture monumentali la cui origine si perde nella notte dei tempi, eoni ed eoni fa. È qui, inoltre, che il quintetto dell’Aquitania sfodera le sue armi migliori con riferimento alla dolcezza timbrica caratteristica dell’eerie emotional music (post-black), vibrando onde d’intensa malinconia che si frangono lungo le vie, i vicoli, le piazze, i ponti, dell’immensa, sterminata città. La fatica, acuita dall’altitudine, rende complicata l’ascesa finale al cuore dell’agglomerato arcaico. Ne risente anche la musica, con la struggente “The Ascend”, clamoroso capolavoro strumentale che, al momento, a parere di chi scrive, è l’insuperata proiezione mentale della forma più pura del black metal. Orrore, terrore, tragedia, misantropia, tristezza, mania di suicidio, sono emozioni terribilmente vive, negli incredibili sette minuti e mezzo della song. Che, dopo il break centrale, s’inerpica sulle più alte vette della meraviglia musicale, sfiorando davvero le ramificazioni inferiori dei Grandi Antichi che dormono quieti nelle pieghe dello spazio profondo, in attesa di annichilire il genere umano. Ormai è tardi, però. Troppo tardi. Quel qualcosa che non avrebbe dovuto risvegliarsi s’è destato, e “Behind The Mountains” ne personifica lo spaventoso aspetto, il rivoltante odore, la disumana ferocia e aggressività. Solo pochi neuroni della mente possono fuggire da un simile terrore, amplificato a dismisura dall’esagerazione sonora dei The Great Old Ones che, durante le loro forsennate accelerazioni, iniettano nelle vene allucinogeni generanti miraggi apocalittici. In fine, tutto si calma, tutto si accheta: le Montagne della Follia tornano nel silenzio che le hanno inghiottite per smisurate ere. Per aspettare, di nuovo, qualcuno che ne calpesti gli angusti passaggi.

«L’horreur liée à nos découvertes ne nous arrêta pas dans notre quête de savoir. Pourtant nous avions compris que ces connaissances pouvaient amener l’Homme à sa perte, à sa chute. Nous avançons encore et encore au sein de cette innommable cité cyclopéenne. Les choses très anciennes avaient succombées au froid du désert blanc, mais pas leur création. Abomination informe mais polymorphe, nous entendons son cri aigu et détestable se rapprocher, comme un avertissement, présageant notre rencontre imminente et inévitable.»  

Daniele D’Adamo

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