Recensione: Temple
Negli scorsi anni in Europa centro-settentrionale sono fiorite quattro band che, pur con evidenti differenze stilistiche, mostrano inconfondibili tratti comuni: si tratta di Gold, Dool, Molasses e Wolvennest. Se le prime tre sono olandesi e possono vantare nelle proprie line up ex componenti dei seminali e compianti The Devil’s Blood, band di culto dedita a un Occult/Pysch Rock scomparsa nel 2013 a causa della morte del chitarrista e mastermind Selim Lemouchi, i Wolvennest provengono dal Belgio e non hanno legami diretti con i The Devil’s Blood. Michel Kirby, fondatore dei Wolvennest, era però amico di Selim e da lui è stato profondamente ispirato del tracciare le traiettorie sonore della sua creatura.
Altre caratteristiche che accomunano i gruppi in questione sono la presenza di vocalist femminili, soluzione calzante considerata l’enfasi posta sulla componente evocativa, e l’incorporazione, in modi e quantità differenti, di elementi Heavy Psych, Doom, Occult e Post Rock/Metal. I Wolvennest, al cui ultimo lavoro sono dedicate queste righe, si distinguono per un’impostazione più marcatamente Metal degli altri, che rimangono invece in ambito Rock. Le basi del progetto vengono gettate a Brussels nel 2015, quando Michel Kirby registra un demo strumentale di sette pezzi su un vecchio 4 tracce Yamaha. Di lì a poco si uniscono a lui Corvus von Burtle e Marc De Backer. Il combo belga coinvolge Albin Julius e Marthynna del gruppo Neofolk/Industrial Der Blutharsch e, assoldati la frontwoman Shazzula e il bassista John Marx, nel 2016 dà alle stampe il debutto “WLVNNST” (catalogato ufficialmente come collaboration tra Wolvennest e Der Blutharsch and the Infinite Church of the Leading Hand).
Il disco incorpora gli elementi distintivi che verranno ripresi e sviluppati nei successivi “Void” (LP del 2018) e “Vortex” (EP del 2019). Queste ultime due release, che non vedono più il coinvolgimento di Der Blutharsch, sono risultato di una peculiare sintesi tra 70’s Psichedelia, Doom, Black, Post Metal che mette in risalto i background estremamente variegati dei musicisti coinvolti. Si percepiscono inoltre influenze derivanti da sonorità orientali, in primis marocchine e sufi, riconoscibili nelle strutture ritmiche, nelle lunghe introduzioni e nella ripetitività dei motivi, dalla cui combinazione emerge una proposta “trance-inducing”.
Come i suoi predecessori, “Temple” è uscito per la leabel tedesca Ván Records. Con una durata che sfiora gli 80 minuti, si compone di otto lunghe tracce ipnotiche e sfaccettate, restituite a dovere da una produzione che combina con nitidezza e potenza i molteplici strati sonori. Nella opener “Mantra” il cantato ritualistico di Shazzula si adagia su motivi circolari, appannaggio di una psichedelia cosmica che – a tratti – assume un sapore orientaleggiante. “Swear to Fire” è un Doom cerimoniale che, con il suo incedere ripetitivo e le linee vocali accattivanti, non è lontana dai lavori di Blood Ceremony e The Devil’s Blood.
L’elegante strumentale “Alecto” e “Incarnation”, senza discostarsi dal mood generale del platter, sono passaggi atmosferici dall’approccio Post Rock/Metal. “All That Black” è altro pezzo Doom-oriented, ma con un passo relativamente sostenuto, con liriche che suonano come una sorta di esaltazione dell’oscurità.
Seguono due episodi in cui Shazzula lascia spazio a ospiti. Rimescolare le carte dopo quasi un’ora di musica si rivela un’ottima idea per tenere viva l’attenzione dell’ascoltatore. In “Succubus” è il mitico menestrello Dark/Folk TJ Cowgill (meglio noto come King Dude) a prendere il microfono, mentre in “Disapper” troviamo Déhà, polistrumentista attivo in molte realtà della scena estrema belga da sempre tanto vicino ai Wolvennest da poter essere considerato un componente aggiunto. Si tratta di composizioni stilisticamente affini che, complici i timbri baritonali dei due, aprono una parentesi Gothic all’interno dell’album. Dopo una lunga introduzione, la conclusiva “Souffle De Mort” prende gradualmente forma su un drumming tribale che accentua la ritualità di un pezzo in cui le invocazioni in francese di Shazzula si fondono con le dilatazioni psichedeliche delle chitarre.
“Temple” rappresenta l’ideale prosecuzione dell’esplorazione di territori misteriosi e dei meandri più oscuri dell’animo umano intrapresa dai Wolvennest con i precedenti lavori. Immersivo e del tutto inadatto a una fruizione superficiale, questo nuovo capitolo della discografia dei Belgi saprà conquistare il favore degli ascoltatori attratti dalla dimensione contemplativa della musica pesante, ma difficilmente riuscirà a far cambiare idea a quanti non hanno apprezzato quanto fatto dalla band finora.