Recensione: Tempus Non Est Iocundum
Guardando la copertina del disco, non è certo peregrino pensare di avere tra le mani un disco folk metal in latino. Sarebbe di certo interessante, ma non è questo il caso. I versi dell’esordio discografico degli Ad Plenitatem Lunae non sono scritti nella lingua del poeta Virgilio ma, piuttosto, in quella in cui Pasolini metteva nero su bianco le sue poesie negli anni quaranta dello scorso secolo: il friulano. In effetti, questa prima fatica discografica potrebbe sembrare un ideale prosieguo in chiave metal delle Poesie a Casarsa.
Attraverso l’utilizzo del dialetto, i nostri si accostano a una tradizione folkloristica ancestrale, affondando le mani in un terreno gravido e fertile e scuotendo dal loro torpore quelle forze primordiali che, da sempre, dimorano immutabili la memoria delle campagne. Il risultato non è un arcadico inno alla vita cantato su campi dipinti alla luce del sole, ma un inesorabile memento mori che rende omaggio alla più grande e ineluttabile delle forze, quella morte che tutto raggiunge e tutto trasforma. Rispettata ma non ricercata, la fine non porta rassegnazione e non esclude un anelito deciso: la forza vitale pulsa tra le tracce del CD e si spande nei fraseggi che ne costituiscono l’intelaiatura.
Come forse alcuni ricordano, questi ragazzi avevano già fatto capolino sul mercato nel 2010 con un demo che, nonostante la sua brevità, aveva fatto alzare parecchie teste e lasciato serpeggiare insistentemente il nome della band tra pubblico, addetti ai lavori e colleghi musicisti; un passaparola che, come sempre, è il miglior biglietto da visita per un gruppo emergente. Forti di questo incoraggiamento, i sei hanno deciso di farsi coraggio e tentare di arrivare al livello successivo grazie alla pubblicazione di questo nuovo disco. Per tutti coloro che non avessero avuto modo di ascoltare la precedente fatica del combo friulano, sappiate che la loro proposta musicale si fonda su una robusta base folk, formata da riff veloci accompagnati da cornamuse e flauti; il tutto, però, è “sporcato” da un costante, seppur non invasivo, ricorso all’elettronica.
A questo punto, è doverosa una precisazione: i testi in dialetto sono un ostacolo relativo alla fruibilità del prodotto. Nonostante l’infelice scelta cromatica usata per la stampa del libretto (arancione scuro su rosso!), lo stesso contiene le traduzioni in inglese di ogni brano; in Rete troverete anche la versione in italiano. Sebbene l’atmosfera tragga notevole giovamento dalla cripticità dei versi, potrete colmare anche qualunque curiosità sui loro contenuti con uno sforzo minimo.
Per quanto riguarda il lato sonoro, questo disco è una filiazione diretta del folk metal di stampo teutonico: a fianco dei classici elementi che caratterizzano questa corrente musicale, come flauti e darbouka, troviamo numerosi inserti “techno” che rendono più greve e ruvido il risultato finale. Niente di eccessivo, non stiamo parlando di novelli Rammstein con la zampogna ma, piuttosto, di musicisti che decidono di allontanarsi dai dettami più rigorosi della scuola cui appartengono e di utilizzare forme d’ibridazione che, nel 2013, non credo possano più scandalizzare nessuno. Che i dogmi inflessibili stiano stretti ai nostri, del resto, appare evidente mano a mano che si prosegue nell’ascolto: gli Ad Plenitatem Lunae, infatti, non si limitano a ripercorrere i canoni fissati da quanti hanno fornito loro ispirazione (un nome su tutti, gli In Extremo dell’unicorno Rhein), ma li arricchiscono, li mescolano tra loro e ne estraggono un distillato armonico che, pur mantenendo il sapore di tutte le parti che lo compongono, assume un aroma proprio e inconfondibile. Basti pensare alla reinterpretazione che i sei friulani fanno di Turcs!, un brano strumentale scritto dai conterranei Bràul: dopo essere stato tritato e macinato dal sestetto, il pezzo guadagna un testo e si trasfigura da mediorientaleggiante melodia a robusto schiacciasassi sonoro.
I richiami che si susseguono nel corso del CD sono numerosi e non si limitano alle citazioni musicali moderne: la maggior parte di essi, infatti, proviene da quella tradizione popolar-contadina di cui parlavo nell’introduzione. A fianco di riferimenti storici e narrazioni folkloristiche, troviamo invocazioni al mondo del Sacro e a quello del profano, in un dualismo ricorrente che da sempre caratterizza le popolazioni delle nostre terre.
Il maggior difetto di Tempus Non Est Iocundum è quello di essere un’autoproduzione: pur essendo evidente la volontà di fare un ottimo lavoro, un’analisi approfondita non può esimersi dall’evidenziare quelle mancanze collegate alla genesi del disco stesso. La qualità generale è buona, ma capita che le tonalità alte e medie si impastino tra di loro, dando vita a un risultato finale confuso. Fortunatamente, sono solo episodi che non pregiudicano gravemente il quadro complessivo. Anche il libretto, almeno nella copia in nostro possesso, soffre a causa di una grafica non eccellente, soprattutto a livello cromatico. Peccato, perché le immagini e i testi valgono la nostra attenzione ed è davvero con rimpianto che sacrifichiamo le nostre diottrie per analizzarli.
I friulani confezionano un prodotto davvero interessante, soprattutto per quanto riguarda le idee che sono state riversate al suo interno. Il loro non è sicuramente un miracolo creativo che stravolgerà il folk metal ma, se non altro, una realtà valida che dà linfa vitale a tutto il genere e che, speriamo, trovi il riscontro positivo di qualche produttore in grado di valorizzare ulteriormente l’operato di questi ragazzi. Di certo, potrebbe venirne fuori qualcosa di interessante!
Damiano “kewlar” Fiamin
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Tracce:
01. Intro
02. Sante Agnês
03. Tempus non est Iocundum
04. Turcs! (Bràul Cover)
05. I Intermezzo
06. Cogoçârs
07. 1511, 27 Di Fevrâr
08. L’ustîr
09. II Intermezzo
10. Canis Domini
11. Agane
12. La Strie (con Davide Cicalese)
13. Datura stramonium (traccia nascosta)
Formazione:
Marco Cargnelutti: batteria
Alberto Revelant: basso
Giulio Martinelli: chitarra
Maria Valentinuzzi: tastiera, bombarda
Ermes Buttolo: cornamuse, flauto traverso, darbouka
Nakìa Spizzo: voce
Ospiti:
Walter Rizzo: ghironda
Michele Codutti: clarinetto
Silvia Mossenta: arpa
Davide Cicalese: voce
Coro “Sul far dell’aurora”
Guglielmo DeMonte: voce sulla traccia nascosta