Recensione: Tequila Suicide
Matthias Lasch è un soldatino del rock dal 1982 quando, affibbiatosi l’etichetta di peccatore, diede luce al primo album dei Sinner “Wild ‘n’ Evil“. Seguirono altri 8 dischi, che lo portarono al 1995; un carriera dignitosa e senza grandi luci della ribalta ad illuminarne i tratti salienti. Un onesto, volenteroso e infaticabile portatore di carbone alla grande fornace dell’hard rock e del metal, le due polarità tra le quali il buon Mat si è sempre destreggiato. La rinascita avviene nel ’96 con “Judgement Day“, apparentemente un album uguale a tutti i precedenti, e invece per qualche motivo stampa e pubblico si soffermano più del solito sulla nuova produzione dei Sinner. In realtà la ragione c’è eccome, si tratta di un disco tempestato di ottime canzoni che improvvisamente ricordano al mondo che quel tizio parcheggiato da qualche parte nel Baden-Württemberg merita rispetto e forse anche qualche scusa.
Prende corpo il secondo tempo di una carriera che mette in fila diversi dischi pregevoli, da “The Nature Of Evil” a “The End Of Sanctuary“, passando per “There Will Be Execution” (tra gli episodi più duri di tutta la storia dei Sinner) e “Mask Of Sanity” (tra gli episodi più fiacchi di tutta la storia dei Sinner). Con cadenza biennale, se non addirittura annuale, Mat riprende a pubblicare album, indomito e infaticabile, nonostante raggiunga e superi la soglia dei 50 anni. “Tequila Suicide” arriva a quasi un lustro dal precedente “Touch OF Sin 2“, che già era una raccolta celebrativa (pur se con qualche inedito). Tanta acqua sotto i ponti non era mai scorsa tra una produzione e l’altra del rocker di Stoccarda. A conti fatti però il lasso di tempo è del tutto irrilevante poiché il 17° studio album di casa Sinner prosegue con assoluta coerenza e fedeltà il discorso già noto.
Limite o medaglia che sia, “Tequila Suicide” è un po’ il “solito” disco dei Sinner, equamente bilanciato tra rock e metal, con le ineludibili influenze Thin Lizzy, riscontrabili anche e soprattutto nel modo di intendere e dispiegare le vocals di Mat. La band non ci ha mai abituato a capolavori imprescindibili del pentagramma, ma non ci ha mai neanche dato sonore e brucianti fregature. La militanza ultra trentennale, l’esperienza in studio, on the road e in sala d’incisione, la fratellanza con altre realtà dell’universo borchiato teutonico (su tutti i Primal Fear dei quali Mat Sinner continua a far parte), garantiscono lavori sempre ben fatti, piacevoli e corroboranti. Talvolta Mat azzecca qualche canzone in più, talvolta in meno, ma è piuttosto facile ritrovarsi a canticchiare le sue melodie. “Tequila Suicide” in tal senso non fa eccezione. E’ tutto prevedibile e già sentito, è un compendio di metal rock quadrato e a piena benzina, dove il sapore dell’ovvietà si accompagna a quello di una solare familiarità con stilemi che mettono sempre di buon umore (che poi alla fine è quello che accade anche con un disco degli AC/DC, indipendentemente dalla decade nel quale è stato pubblicato).
Potreste estrarre a sorte una qualsiasi canzone dalla scaletta di “Tequila Suicide” e trasferirla di sana pianta in un altro album dei Sinner degli ultimi 20 anni, al di là di qualche assestamento di produzione nessuno noterebbe grandi stonature o discontinuità. Il segreto di Mat Pulcinella è anche questo, marciare dritto per la propria strada, incurante delle rivoluzioni che il mondo gli scatena attorno. I Sinner sono sopravvissuti a tutto ciò che è accaduto nel music business dall’82 ad oggi, senza mai doversi pentire di album crossover, grunge, industrial, alternative a interrompere una ferrea continuità stilistica. Come i Saxon o i Running Wild (e volendo continuare la lista basterebbe aggiungere Gamma Ray, Freedom Call, Metalium, Grave Digger, Stormwitch, eccetera) i Sinner fanno ciambelle sempre uguali, di volta in volta va solo misurata l’ampiezza del buco.
In piccolo, accade lo stesso anche all’interno di “Tequila Suicide“, un micromondo che diventa allegoria di una carriera; accanto alle pregevoli “Go Down Fighting“, “Sinner Blues“, “Why“, Gypsy Rebels” e alla title track si affiancano parentesi meno significative come “Dying On A Broken Heart“, “Loud & Clear“, “Road To Hell” o “Dragons“. “Battle Hill” paga dazio ancora una volta al cuore irlandese che batte forte nel petto di Mat, nonostante il passaporto tedesco. Composizioni che vanno dritte al punto, secondo lo schema straconsolidato strofa-ritornello-strofa-ritornello-mini variazione-strofa-ritornello-ritornello-ritornello; prendere o lasciare, l’inventiva strabiliante risiede altrove, qui vale la sana e antica ricetta della nonna. Bello l’artwork, che cita il mondo latino-esoterico del culto della Santa Muerte.
Marco Tripodi