Recensione: Terminal Redux
Raramente, negli ultimi 15/20 anni, mi è capitato di assistere a un fenomeno di pari proporzioni per l’uscita di un album Heavy Metal, come nel caso del qui presente “Terminal Redux” dei thrasher statunitensi Vektor. Sia per la spasmodica attesa dei vari fan sparsi per il globo, pronti a eleggere i propri giovani beniamini come gli eredi dei più grandi gruppi del passato, sia per la mastodontica mobilitazione della label (Earache), che ha prontamente ristampato i precedenti lavori del gruppo e, ben tre mesi prima dell’uscita ufficiale, ha messo in pre-order una quantità indicibile di merchandise della band. Ogni singolo CD, album più maglietta, il bundle con tutti i loro lavori, LP nero e colorato, patch, magliette, felpe e ammennicoli vari. Un qualcosa d’impensabile per un gruppo pur sempre proveniente dall’underground e non i soliti Metallica o Iron Maiden. Segno che la storica etichetta di Nottingham punta molto sul talento di questo giovane gruppo e sull’incredibile passa parola tra fan, che ha permesso loro di arrivare sulla bocca di moltissimi metalhead sparsi per tutto il globo. Per il talento, dicevamo, che i Nostri hanno ampiamente dimostrato di possedere con i due lavori precedenti, e non per un prodotto orecchiabile o di facile presa, che possa ottenere consensi anche fuori dalla cerchia del popolo metallico, garantendo un ritorno economico importante. Niente di tutto ciò, anche perché le loro composizioni sono sempre state zeppe di tecnicismi, brani lunghi e pieni di cambi di tempo, strutture multiformi e dissonanze varie, prodotte sconfinando talvolta in altri generi o inserendo soluzioni diciamo “audaci”. E questa loro ultima fatica non si discosta poi molto da quanto proposto finora, se non per il fatto di aver aggiunto alcune sperimentazioni in grado di spiazzare in più di un’occasione anche i loro più convinti seguaci.
Le prime avvisaglie erano arrivate già dalle canzoni rilasciate in anteprima: se “Ultimate Artificer” si presentava come il classico brano al 100% in stile Vektor, “Charging The Void” offriva spunti differenti, allontanandosi in parte non solo da quello che è il loro trademark, ma dalla definizione stessa di genere thrash. Quello che fa discutere maggiormente in questo caso, nel bene o nel male, è il cantato femminile sul finale di canzone, che va a sovrapporsi alla voce di DiSanto, e i successivi vocalizzi (che ritroveremo anche nel finale simil-progressive di “Recharging The Void”). Per non parlare della mancanza di un vero e proprio assolo di chitarra che squarci il velo di Maya con la sua irruenza o che, invece, ci culli con fare onirico attraverso il silente mare del Vuoto e oltre il Grande Spartiacque, avvolti da particelle cosmiche e da nebulose generate dall’esplosione di corpi celesti, fino a giungere all’immensità delle ali spalancate di Cigno, tinte di nero. E dire che il brano, lungo i suoi nove minuti abbondanti, offre più volte dei crescendo ideali per far sbizzarrire Nelson con tutto il suo estro. D’altra parte va detto che con i loro intricatissimi riff di chitarre, spesso il confine tra ritmica e solistica è davvero labile, specie quando vanno sulle note alte tanto care ai gruppi black. Considerazione che ci porta direttamente al terzo e ultimo brano proposto in anteprima: “Pillars Of Sand”. Canzone che rappresenta un po’ l’emblema della precedente affermazione, perché è senz’altro l’episodio che più di ogni altro riprende certi stilemi e stile chitarristico del black e perché qui veramente le due fasi della sei corde arrivano quasi a fondersi. E raggiungono il culmine quando il brillante solo di Nelson va a costituire l’ossatura della strofa fino ad arrivare al ritornello, mentre DiSanto continua tranquillamente – si fa per dire – a cantare con il suo solito stile al vetriolo. Espediente che comunque i Nostri avevano già sperimentato su “Fast Paced Society”. Tuttavia, la prima vera cesura con il passato arriva con “Collapse”, una ballata di pink-floydiana memoria (anche se l’arpeggio iniziale ricorda vagamente quello di “Fade To Black”). Molto valida la parte iniziale, con DiSanto che stupisce tutti sfoggiando un buon cantato pulito – senza mai rischiare note difficili, chiaramente –, con la quale i Vektor ci mostrano per la prima volta il loro lato più intimo, dimostrando così di non essere solo dei freddi esecutori e compositori dotati di iper tecnica. Il brano poi soffre un po’ tra alti e bassi. Bella la fase solista, non splendido l’effetto di sovrapporre a un certo punto la voce pulita e il cantato sporco. Così come un po’ discutibile la sezione con i riff aperti e i fraseggi in stile heavy metal, alla ricerca di un’epicità che forse non è nel loro DNA.
Chiuso il capitolo novità e sperimentazioni, con una piccola postilla riguardante il cantato di DiSanto e il suo quasi totale abbandono di quegli urletti in falsetto che infastidivano qualcuno, concentriamoci un attimo sull’album dal punto di vista compositivo. Se con “Outer Isolation” i Vektor avevano dato una piccola sforbiciata, chiamiamola “razionalizzazione” se preferite, alla lunghezza dei brani che caratterizzavano “Black Future”, su “Terminal Redux” alcune canzoni tornano a dilatarsi, come nel caso delle già citate “Charging The Void” e “Collapse”. Per non parlare dei tredici minuti abbondanti di “Recharging The Void”. Tuttavia, mentre con il loro secondo lavoro avevano per così dire trovato la quadratura del cerchio, qui sono andati a segno a fasi alterne: ottima l’opener e il brano conclusivo, un po’ meno “Collapse”, come già evidenziato. Così come, dall’alto dei suoi otto minuti, non va del tutto a segno “Cygnus Terminal”, canzone che nelle intenzioni mi ha ricordato un po’ “Crystal Mountain” (Death) e “Mother North” (Satyricon). Anche se in questo caso, forse, non è tanto la lunghezza in sé a rappresentare un ostacolo, o l’assenza di nuovo di un assolo (se non un accenno a due terzi di canzone), quanto il fatto di mancare un po’ di mordente in alcuni frangenti. Di soffrire di eccessiva melodiosità, che alla lunga può in parte stancare.
Chiudono la carrellata quelli che sono probabilmente i migliori estratti del lotto. Ovvero “Psychotropia”, che punta maggiormente su accelerazioni improvvise e sulla ruvidità del rifferama, come in occasione del ritornello che sembra quasi uscire da “The Sound Of Perseverance”, non fosse che il drumming di Anderson è molto più secco e frenetico, rispetto allo stile quasi ampolloso di Christy. Oltre al fatto che sul cantato nel refrain aleggia davvero la presenza di Chuck Schuldiner. Memorabile il duello di assoli tra chitarra e basso, con Frank Chin che non ci sta proprio a recitare il ruolo di semplice comprimario. Da applausi a scena aperta, infine, “LCD (Liquid Crystal Disease)” e “Pteropticon”, che rappresentano la summa di tutto il loro miglior repertorio: ritmiche forsennate, stop ‘n’ go mozzafiato, assoli improvvisi e taglienti e cattiveria a palate. Due classici istantanei.
Insomma, dopo cinque lunghi anni i Vektor sono tornati con un disco che li conferma senz’altro tra le più fulgide realtà dell’intero panorama heavy metal. Quindi, pur non disponendo dei dati di vendita (comunque indicativi fino a un certo punto), si può tranquillamente affermare che la scommessa fatta da Earache su questi giovani ragazzi provenienti dall’Arizona, sia stata ampiamente vinta, perché hanno ripagato la label con un prodotto di qualità elevatissima. Certo, chi si aspettava il loro capolavoro definitivo dovrà forse attendere ancora, perché i Nostri hanno imboccato un sentiero dalla destinazione ignota e l’hanno fatto rischiando con scelte coraggiose, che non sempre però hanno sortito l’effetto sperato. Perlomeno dal punto di vista di una parte dei sostenitori. Ad ogni modo “Terminal Redux” è l’ennesima risposta forte a tutti quelli che, non conoscendolo, ritengono che il thrash sia un genere che chiunque possa suonare (un po’ come si diceva del punk lustri addietro) e che non si sia mai evoluto, stagnando dai primi anni Ottanta fino ad oggi. Mi piace pensare che sia un po’ anche merito loro se i più giovani sono andati a riscoprire band come Obliveon, Aspid, Blind Illusion, Mekong Delta o Voivod. Tutti gruppi che hanno contribuito a creare il loro stile, ormai definitivamente riconoscibile e personale, e che erano già avanti anni luce per il loro tempo, ma che sono inesorabilmente finite in secondo piano, se non definitivamente nell’oblio, per l’ascesa del grunge da un lato e dello stesso thrash divenuto groove dopo l’avvento di Pantera, Machine Head e Sepultura, dall’altro. Tutte band techno-thrash o progressive thrash (ce ne sarebbero molte altre da nominare) che potrebbero tutt’oggi offrire molteplici spunti da cui partire per definire le coordinate future del genere, dando vita ad album densi di contenuti, freschi e innovativi, proprio come fatto finora dai Vektor.