Recensione: Terrasite
Quattro anni di silenzio e tornano in campo i Cattle Decapitation. “Terrasite” è il loro nuovo disco che, al contrario di quanto accadeva nel precedente “Death Atlas” (2019), esplora i contenuti del cosiddetto horror diurno. L’orrore, cioè, che si svolge di giorno, con i Governi dei vari Stati la cui unica ragione di esistere è quella di accrescere la capienza delle proprie tasche a discapito del benessere dei popoli e del globo terracqueo, sempre più sofferente fra inquinamento e stravolgimenti climatici.
Un orrore ben raffigurato in primis dal disegno di copertina, in cui le tinte non sono quelle dell’oscurità bensì quelle della luce. Ma, soprattutto, un orrore perfettamente materializzato da una musica semplicemente devastante. I Cattle Decapitation fanno paura, cioè; davvero paura per la furia annichilatrice di un stile unico al Mondo, capace – fra l’altro – di coniugare con grande maestria gli elementi più estremi che un essere umano riesca a oltrepassare.
Il concetto di death metal viene superato in ordine a un sound che va oltre la morte per integrarsi alle molecole d’aria, matrici di un’atmosfera (terrestre) malata, marcia, in decomposizione, prossima alla fine. Un sound obiettivamente probabilmente irraggiungibile, a seguito di una precisione esecutiva che si mantiene al massimo anche quando i BPM raggiungono e oltrepassano i limiti della più folle follia.
Il che accade spesso, sin da subito, con l’opener-track ‘Terrastic Adaptation’ la quale, dopo il classico incipit ambient / strumentale, scatena l’ira di Dio sulla Terra. L’attacco sonoro è uno dei più pazzeschi che sia mai stato possibile ascoltare. Valanghe di blast-beats annichiliscono la materia frantumandola in atomi, mentre l’allucinata, schizofrenica interpretazione vocale di Travis Ryan raggiunge il Reame della Pazzia. Come detto, l’abilità tecnica del combo di San Diego pare andare nei territori del non-umano: l’impatto del suono è difficile a definirsi se non con aggettivi che rimandano alla totale devastazione delle membrane timpaniche e, conseguentemente, del cervello; spappolato dall’abnorme energia che si sprigiona dai solchi del full-length (‘We Eat Our Young’).
S’innesta quindi, immediatamente, lo stato di trance da hyper-speed, particolare configurazione mentale tipica delle sostanze psicotrope di tipologia allucinogena. Uno stato mentale che slaccia i legami con la realtà per piombare su di un pianeta sperduto nello Spazio profondo, popolato da orride creature metaforicamente assimilabili ai governanti terresti. La sensazione di pericolo è palpabile, la materia celebrale sublma, i sensi acuiscono quanto più possibile la loro capacità ricettiva per sfuggire al pericolo, l’ansia di scatena incontrollata. È il momento, allora. Il momento in cui i Cattle Decapitation catturano folle di prigionieri ammaliati dalla loro musica e dalle loro mirabili melodie (‘Scourge of the Offspring’).
Sì, poiché Ryan e i suoi compagni possiedono, pure, un eccellente talento per tratteggiare arcane, trasognanti armonie. Antitesi pura con la terrificante brutalità di uno stile che, sì, si è detto, è death metal. Ma in maniera riduttiva, giacché l’album fa storia a sé, non esistendo al Mondo nulla di simile. Le chitarre sciorinano tonnellate di riff aggrovigliati fra loro, compressi all’inverosimile dalla tecnica del palm-muting. Non mancando di abbagliare negli istanti in cui s’innalzano maestosamente le sezioni soliste, magari in occasioni delle rare decelerazioni del ritmo da cinetismi impossibili da raccontare (‘The Insignificants’). Di inestimabile valore, pure, la sezione ritmica, con David McGraw che, semplicemente, fa spavento per la sua mobilità e potenza, che non cala mai, neppure quando si vola oltre la sfera del suono, ove si distorce lo spazio-tempo.
L’LP non offre punti deboli. In nessun senso. Tutto è spinto al top in modo irreprensibile, nella catena compositiva. Non c’è nemmeno una nota che possa bollarsi come insignificante. La bravura profusa nel songwriting non si scopre certo adesso, tuttavia la band cerca di proporre episodi sempre nuovi, diversi da quelli dei platter antecedenti, che si potrebbero definirsi freschi, innovativi nell’insuperabile connubio fra furia devastatrice e accattivanti melodie che la band stessa riesce a scodellare nel piatto (‘.. and the World Will Go on Without You’).
Peraltro, l’estrema varietà di temi musicali toccati dal quintetto statunitense fa sì che l’opera, nonostante i cinquantadue minuti di durata, abbia una longevità assai rilevante. Non mancano, difatti, cunei fabbricati dal sintetizzatore che accrescono e articolano la profondità delle canzoni, rendendole paradossalmente più leggibili in virtù, nuovamente, di una bravura catchy ineguagliabile nel campo del metal super-estremo.
Allora, come non ricominciare da capo, una volta oltrepassato il traguardo rappresentato dalla caleidoscopica, complessa ma potabilissima suite ‘Just Another Body’? Impossibile resistere, insomma. I Cattle Decapitation, del resto, si muovono su un piano così elevato, tecnicamente e artisticamente, che possono considerarsi un’entità a sé stante, irraggiungibile dagli altri che si cimentano nello stessa forma artistica.
Spettacolo puro!
Daniele “dani66” D’Adamo