Recensione: Test For Echo

Di Mauro Gelsomini - 25 Gennaio 2005 - 0:00
Test For Echo
Band: Rush
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 1996
Nazione:
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87

Al primo approccio Test For Echo sembrerebbe un ritorno alle origini, un abbandono di gran parte delle ampollosità degli album immediatamente precedenti, che con Counterparts avevano toccato addirittura le sponde dell’alternative rock. Lo stile tutto AOR che da Grace Under Pressure aveva vorticosamente avvolto la produzione Rush fino a Roll The Bones sarebbe stato, a detta dei critici, messo da parte a favore del classico prog rock di dischi come Permanent Waves e Moving Pictures.
Il condizionale è d’obbligo, perché se da una parte è innegabile il riscontro di elucubrazioni stilistiche e strutture compositive poco votate alla forma canzone, c’è da ammettere che la perizia tecnica dei nostri era evidente anche negli album “ottantiani”, ben celata, alle orecchie dei più distratti, da brani al servizio della melodia. E’ anche per questo aspetto che non mi sento di parlare di nostalgico flashback: è difficile non parlare di killer songs, dal momento che tutti (o quasi) i brani inclusi sono memorabili e, soprattutto, cantabili, nonché fedeli a strutture tipicamente Rush, secondo cui non c’è uno standard precostituito, bensì una “logica” intrinseca del brano, una sorta di “ovvietà” che si costruisce con l’ascolto.
Undici brani dalle linee vocali armoniosissime, ora soffuse, ora più aggressive, dalle ritmiche che a volte si spezzano come accadeva agli inizi.

La maturità con cui il trio canadese affronta questo album e parallelamente un periodo della vita si risolve con una ricerca di equilibrio ben rappresentato dalla cover – come sempre geniale – e ricorrente a livello lirico in molti brani, nonché tema già affrontato in Roll The Bones. Non è mancato chi ha visto nella title-track una risposta politica all’impoverimento mediatico americano del tempo, con Jerry Springer e OJ Simpson a sostenere la morte cerebrale del pubblico, e la conseguente incapacità dell’industria del divertimento di creare idee nuove.
“Driven” è la “Red Barchetta” del 1996, scritta da Peart dopo le due tragedie che gli hanno cambiato la vita, brano da automobile, sì, ma per un guidatore saggio ed equilibrato, che vede la sua strada dividersi e si lascia guidare dal destino piuttosto che farsi indirizzare da un altro. Struggente il passaggio dal travolgente riff portante – ciò che di più metallico ho ascoltato negli ultimi anni – e il memorabile refrain.
Con “Half The World” la gente viene divisa in due grandi insiemi secondo la logica dell’avere e del volere, dei ricchi e dei poveri, e ancora una volta è l’equilibrio che domina il mood strumentale, con accelerazioni e risvolti pacati o riflessivi.
E la verità dov’è? Un po’ qua, un po’ là, secondo “The Color Of Right”, per cui la ragione dev’essere tutt’altro che presunta, per un mondo migliore. Il crescendo della song è spettacolare.
C’è spazio anche per un brano triste come “Time and Motion”, visto con l’occhio di chi, in età avanzata, ripensa a come gli anni sono corsi via veloci. Segue “Totem”, e ritroviamo il Peart a cui siamo abituati, intelligente, brillante e, soprattutto, polemico. Stavolta è la religione a finire sul banco degli imputati, e forse è poco utile anche discuterne, visto che non abbiamo molto tempo per farlo: il tempo torna ancora, come vedete, invecchiamo, e a volte conviene porsi nei confronti del tempo piuttosto come un cane che campa un anno, che come una tartaruga che ne campa cento… sto parlando di “Dog Years”, radiofonica quanto basta per non deprimere troppo con una delle tematiche più sentite dall’uomo.
E ancora, per la serie “i Rush anticipano i tempi”, ecco “Virtuality”, a profetizzare l’espansione di internet, grande conquista ma anche minaccia delle relazioni interpersonali. E ancora “Resist”, ballatona da brividi con liriche curiosamente a cavallo tra la rivoluzione in Irlanda, e il tema delle tentazioni.
Dopo “Limbo”, la strumentale di rito, ecco “Carve Away The Stone”, ovvero un’esortazione a togliere il superfluo per scoprire un capolavoro, con l’immediata allegoria della scultura…

Ribadisco in chiusura la superficialità che accolse questo disco, anche in positivo, d’altra parte è stato facile tirare un sospiro di sollievo: l’uscita di Test For Echo arriva ben tre anni dopo l’ultimo album – mai prima i Rush avevano fatto attendere tanto una release – e i fatti lasciavano intendere che si sarebbe trattato del disco d’addio, al punto che le voci di corridoio volevano che il titolo fosse “Quits!”… In effetti Neil è letteralmente distrutto dalla perdita di sua moglie a causa del cancro, e come se non bastasse, a distanza di un anno viene a mancare anche sua figlia, vittima di un incidente stradale. Geddy e sua moglie aspettano il secondo figlio, e anche per il “bassista che canta” un ritiro a vita privata può essere auspicabile. Intorno ai Rush c’è il vuoto, a livello d’importanza storica, soprattutto, nessuno è come loro, né lo sarà mai, e in questo vuoto spazio-temporale non può che rimbombare in modo assordante il grido che fuga ogni dubbio, i Rush sono tornati, e sono più forti che mai. Test For Echo, signori.

Tracklist:

  1. Test for Echo
  2. Driven
  3. Half the World
  4. The Color of Right
  5. Time and Motion
  6. Totem
  7. Dog Years
  8. Virtuality
  9. Resist
  10. Limbo
  11. Carve Away the Stone

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