Recensione: Thanatos

Di Daniele D'Adamo - 9 Marzo 2019 - 9:35
Thanatos
Band: Carved
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2019
Nazione:
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82

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E così, anche per gli spezzini Carved, è arrivata la prova del fuoco. “Thanatos”, il terzo full-length, cioè, tradizionalmente utilizzato quale cartina al tornasole per capire se una band sia oppure non sia in grado di assurgere ai migliori standard qualitativi fissati dal mercato discografico internazionale.

Più o meno immutato, rispetto all’ottimo predecessore “Kyrie Eleison” (2016), lo stile che, a onore del vero, era già in allora perfettamente definito, adulto, profondo. I Carved sono una di quelle formazioni che si riconoscono al primo ascolto quindi, ovviamente, sarebbe stato illogico stravolgere una foggia musicale che ha funzionato senza alcun intoppo, senza incertezze, senza indecisioni di sorta.

Il sound dei Nostri, in “Thanatos”, è frutto di un bilanciamento stabile fra brutale aggressività, melodiose orchestrazioni e inserti di chitarra, arpa, volino, pianoforte e altro ancora. Un elemento che è stato ulteriormente affinato, in quest’ultimo triennio, giungendo a un amalgama che, all’orecchio, suona genuino, per nulla forzato. Si scontrano anzi si abbracciano diversi flavour dal sapore medievale, barocco, rinascimentale. La fusione fra strumentazione elettrica e classica segue questo concetto, fornendo ai Carved lo strumento principale, fluido e naturale, dal quale estrapolare la successione delle song del platter come una sorta di processione di singoli elementi, dotati di univoca personalità, che segue un unico filo conduttore, un’unica strada, un’unica via. 

Oltre alla globalità dell’opera, il combo ligure si è soffermato anche sui particolari, basti pensare per esempio al basso di Lorenzo Nicoli che, in ‘Spider’, simula, appunto, la particolare camminata dell’aracnide. A tal proposito, “Thanatos” è pieno zeppo di musica, di minuzie, di sottigliezze. Di idee, di trovate, di mille particolari che si mettono a fuoco solo dopo reiterati ascolti. Operazione peraltro piuttosto facile poiché, alla fine, occorre considerare che il genere principale su cui Cristian Guzzon e compagni fondano la loro proposta è il melodic death metal. Con che già i primi passaggi risultano accattivanti, in grado di attirare l’attenzione  grazie ad armonizzazioni nel complesso molto piacevoli da seguire passo passo. Catturata la curiosità, allora, segue l’approfondimento, la cui conseguenza è quella di godere appieno della miriadi di note presenti in “Thanatos”. Un mare sterminato che si affronta con piacere e vivo, pulsante senso dell’ignoto giacché, nel disco, non c’è nulla di scontato, non ci sono cliché presi da altri, non ci sono ripetizioni di schemi triti e ritriti.  

Tecnica sopraffina. Grande competenza musicale. Retroterra culturale immenso. Talento compositivo fuori dalla norma. Grande capacità di mettere assieme le migliaia di pezzi di un puzzle chiamato “Thanatos”. Sono qualità che, assieme, si trovano in rarità, girando per il Mondo. Qualità che, e non poteva essere altrimenti, hanno soffiato la vita nelle tredici tracce che compongono il CD. Song che, tutte e si sottolinea tutte, possiedono, ognuna, peculiarità in quantità industriale, miscelate e messe a punto rasentando la perfezione tecnico/artistica nonché formale/sostanziale. 

Ridicolo pensare di buttare giù un track-by-track. Sarebbe svilente in ordine a un’opera che, al momento, è fra le migliori uscite dalle terre italiche in materia di death metal; i cui pezzi, infatti, vanno scopriti a poco a poco nella loro splendente anima e nel loro intarsio in uno stile da urlo. Tuttavia, impossibile non citare il clamoroso, incredibile ritornello di ‘Octopus’ che, come una sanguisuga, si ammorsa al cervello per non uscirne mai più. Come l’opener-track ‘Sons of Eagle’, favolosa antitesi fra furibonda aggressività, attacco all’arma biancha, e ariose, potenti, possenti orchestrazioni. Pure essa dotata da un chorus di grande classe e rilevanza melodica. C’è poi la ballata medievale ‘La Ballata degli Impiccati’, appunto, eseguita in lingua madre, dalla notevole forza visionaria per percepire l’anima di secoli passati, rivitalizzati dall’erosione del tempo. Ancora, ‘Come With Me’, eseguita unicamente da voci femminili. Oppure la caleidoscopica suite finale, ‘Elsie (An Afterlife Suite)’, che chiude un lavoro da non lasciarsi scappare.

Assolutamente.

Daniele “dani66” D’Adamo

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