Recensione: The 1st Chapter

Di Riccardo Angelini - 10 Luglio 2005 - 0:00
The 1st Chapter
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Anno: 2005
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79

Nullumst iam dictum quod non dictum sit prius” (Publio Terenzio Afro)

“Che diavolo c’entra Terenzio con i Circus Maximus?” si starà chiedendo, non senza ragione, qualche lettore. C’entra, risponderò, perché le parole pronunciate quasi duemila e duecento anni fa dal celebre commediografo cartaginese (“Non c’è ormai nulla da dire che non sia già stato detto”) denunciano con disarmante schiettezza una questione davvero atavica, ma straordinariamente attuale. Oggi come allora la domanda è una: è ancora possibile una concreta e sostanziale innovazione nell’arte, nella musica e, per venire a noi, nel metal (genere dai canoni eccezionalmente severi)? Se la risposta fosse “no”, allora il valore di un gruppo andrebbe determinato non tanto sulla base di “che cosa” dice, ma sulla basi di “come” lo dice. Con la necessaria conseguenza di rendere vana ogni pretesa di originalità a tutti i costi.

Una simile introduzione può apparire fuorviante, ma si rende pressoché doverosa nel trovarsi davanti a un gruppo simile ai qui presenti Circus Maximus. Bravi, bravi davvero questi cinque norvegesi, non solo tecnicamente ineccepibili, ma anche uniti ed esaltati da un affiatamento non comune. Quello che propongono è un prog metal affatto semplice, eppure a modo suo orecchiabile, che di primo acchito potrebbe riportare alla mente quello che i Dream Theater suonavano una dozzina di anni fa. Se l’evoluzione della band statunitense si fosse congelata a quei tempi, il loro ultimo album avrebbe infatti potuto suonare per certi versi simile a questo The 1st Charter; decidete voi se prendere quest’ultima affermazione come un attestato di stima o come una critica velatamente scettica. Fatto sta che, a ben guardare, i Dream Theater non sono l’unica influenza pesante cui i Circus Maximus debbano pagare dazio. Abbiamo chitarre dai riff rocciosi, quasi thrash, che si distendono all’improvviso in assoli neoclassici, abbiamo cori pomposi di ottantiana memoria, tastiere eclettiche e sovente protagoniste ma mai invadenti, un basso saltellante e una batteria bizzosa che rifiutano di mantenere a lungo lo stesso ritmo. Il tutto supportato da un songwriting decisamente valido, bombardato con una certa frequenza da echi per molti versi familiari, omaggi neppure troppo velati a una nutrita schiera di nomi storici del genere.
Qualche esempio? Prendiamo la prima traccia, Sin: partenza in quinta con un riff che è una bastonata, e che a qualcuno potrebbe riportare alla memoria i fasti di Awake: ricordi rapidamente frantumati da una melodia arabesca e altrettanto celermente ricomposti. Parte la strofa e già non si sa più che cosa aspettarsi. Al momento del refrain si intravedono addirittura gli Elegy di Hovinga, congedati da un estemporaneo stacco di pianoforte, che qualcuno potrebbe avere udito in ben altri luoghi tra le oscure sinfonie dei compaesani Dimmu Borgir (analogia forzata o tributo tra le righe?). Aggiungiamo un assolo che pare uscito direttamente dalle corde di Romeo, e avremo un quadro già piuttosto esauriente delle fonti cui la band attingerà anche nelle prossime tracce. Debiti illustri, dunque, saldati con un’esecuzione da applausi. Ma proseguiamo pure: in terza posizione sta arrivando la maestosa Glory of the Empire, che i Symphony X avrebbero probabilmente intitolato The Accolade III: eppure non si tratta di una copia opaca e sbiadita, anzi. La più marcata componente rock contribuisce infatti a differenziarne la marca sonora, mentre non penso di esagerare nel collocare l’accoppiata bridge-chorus ai vertici del prog-power moderno. Alla fine il timer supera i dieci minuti, ma sfido chiunque a sentire la differenza di minutaggio rispetto ai brani lunghi la metà. Non può mancare la classica ballad, in questo caso acustica, la cui funzione è ricoperta dalla sognante Silence from Angels Above, giocata su linee vocali ammalianti e romantiche, chiaramente ispirate al Tate più giovane e teatrale. Tra molti brani di valore, qualche parola in più merita la title track, un suite di una ventina di minuti o poco meno in cui si rivedono un po’ tutti i gruppi citati sin qui e altri ancora, dai Rush agli Ayreon, senza lesinare nelle divagazioni e nelle citazioni più o meno dirette: una vera orgia musicale eseguita con precisione a dir poco chirurgica. Peccato che in cotanto turbinio di suoni a tratti la rotta finisca apparentemente perduta, con l’attenzione che se ne diparte verso orizzonti lontani mentre gli strumenti scrutano il cielo delle stelle maestre nel tentativo di recuperare l’orientamento. Forse è ancora troppo presto per tentare il colpaccio con una suite chilometrica, ma una simile intraprendenza e voglia di fare, in barba anche al rischio di commettere errori, non può che far ben sperare per il futuro. Il passo sembra quindi più lungo della gamba, ma non di molto.

Dunque, in breve, a che cosa siamo di fronte? A una squadra di giocolieri dello strumento, di equilibristi del ritmo, di prestigiatori della melodia – in questo senso il monicker è affatto eloquente – che si affidano a formule collaudate per aprirsi un ponte verso il futuro. Certo, qualche piccolo difetto, non manca: un brano o due forse un po’ troppo prolissi, soprattutto nel finale (la title track è appunto uno di questi) e, a voler cercare il pelo nell’uovo, un timbro vocale, quello di Eriksen, che difetta leggermente in potenza, pur mantenendosi comunque su livelli più che buoni; per giunta, va detto, le parti cantate sono tutt’altro che invadenti, e non di rado lasciano spazio a più lunghe digressioni strumentali, vero fiore all’occhiello della band. Peccati insomma veniali per una band esordiente. E se è vero che le influenze sono tante, e si sentono, è anche vero che alla fine quel che conta è la riuscita dei singoli brani: brani che potranno anche mostrare il fianco quanto a originalità, ma che colgono nel segno senza eccezioni, superando di molto i livelli della sufficienza e avvicinandosi con decisione a quelli dell’eccellenza: ascoltare per credere. Ben vengano allora le illustri ascendenze, ben vengano i tanti riferimenti alle glorie del passato: prima di diventare cubisti, bisogna saper padroneggiare gli stili classici, prima di innovare, si deve assimilare la storia.
Acquisto dunque consigliato a tutti gli amanti del genere, senza contare che i delusi dalle ultime fatiche dei grandi nomi – Dream Theater in primis, ma anche Queensryche – potrebbero trovare qui il disco che avrebbero voluto dai propri beniamini, i quali probabilmente non potranno, o non vorranno, accontentarli mai. Inoltre, se è vero che ogni promessa è debito, c’è da aspettarsi davvero molto da questi ragazzi in futuro. I Circus Maximus hanno dimostrato oggi di avere i mezzi per sfondare, a partire dal prossimo capitolo preparatevi tutti ad accogliere un potenziale capolavoro.

Tracklist:
1. Sin (5:53)
2. Alive (5:38)
3. Glory of the Empire (10:27)
4. Biosfear (5:22)
5. Silence from Angels Above (4:07)
6. Why Am I Here (6:05)
7. The Prophecy (6:44)
8. The 1st Chapter (19:07)
9. Haunted Dreams [European Bonus Track] (7:12)

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