Recensione: The 5th
Tempo di ritorni sulle scene per il thrash metal: dopo i grossi nomi che hanno e stanno tuttora occupando gli scaffali dei negozi specializzati (Testament, Overkill e Kreator, per dirne qualcuno) anche per i teutonici Vendetta è giunto il momento di tornare a farsi sentire, dopo un’attesa di sei anni, presentando il loro quinto studio-album, giustamente titolato “The 5th” ed introdotto da una sobria copertina ritraente il nostro (o almeno il mio) Ludovico Van preferito. In effetti non si può certo dire che i nostri siano dei musicisti prolifici, avendo essi pubblicato solo cinque album e una manciata di demo dalla loro fondazione (risalente nientemeno che al 1984!) ad oggi, ma visto che, soprattutto quando si parla di musica, è la qualità e non la quantità a contare, vediamo di scoprire se l’attesa è stata ripagata.
Storicamente, quando si parla di thrash metal di scuola teutonica ci si deve confrontare con una deriva mediamente più grezza e aggressiva del solito, dominata da un approccio molto più caotico e rumorista o, al limite, da melodie più arcigne, seppur condite dalle solite sfuriate chitarristiche che definiscono il genere. Da questo punto di vista, “The 5th” è un classico album di thrash teutonico vecchia scuola, compatto e maligno. Sebbene i tempi siano leggermente meno frenetici di quanto ci si aspetterebbe, la carica e la malvagità sprigionate dal gruppo si lasciano decisamente apprezzare.
Suoni cupi e sinistri fungono da ouverture introducendo “Fragile”, traccia d’apertura dai ritmi rocciosi in cui i nostri tedesconi iniziano subito a mostrare i muscoli: batteria compatta e rasoiate chitarristiche la fanno da padroni, mentre qua e là fanno la loro comparsa improvvise schegge di melodia. A condire il tutto la voce arcigna di Mario Vogel, la cui timbrica isterica ben si amalgama al resto della proposta dei Vendetta e mi ha ricordato, in un paio di occasioni durante l’ascolto di “The 5th”, sia il buon Mille Petrozza che il recentemente Grammy-ato Dave Mustaine. Il finale rallentato, capace di esibire una certa maligna solennità, ci traghetta verso la successiva e furente “Let’er Rip”, due minuti e mezzo scarsi di rabbia incontrollata in cui il gruppo procede a briglia sciolta, guidato dalla coppia di chitarre e ottimamente sostenuto da una sezione ritmica precisa e aggressiva. L’inizio di “Deadly Sin” procede più o meno lungo la stessa rotta, con ritmiche rabbiose ed insistenti ma più controllate, che sfociano in un ritornello discreto ma che in realtà non mi ha convinto del tutto, forse troppo contenuto. Per fortuna i ritmi tornano a farsi cattivi durante la strofa e il breve assolo che chiude il pezzo e ci traghetta verso la meno brutale ma non per questo meno interessante “Agency of Liberty”, in cui l’approccio vocale più trattenuto e malvagio di Mario sovrasta un tappeto di riff semplice e monolitico ma comunque incalzante, ideale per scapocciare furiosamente durante i live del gruppo. “The Search”, opportunamente piazzata al centro dell’album, altro non è che un delicato intermezzo acustico utile per dare un po’ di riposo alle orecchie dell’ascoltatore, spezzando la trama dell’album in vista del ritorno alle mazzate di “The Prophecy” che, sorretta da una sezione ritmica quadrata e cattiva e riff taglienti, torna a suonare la carica. Il rallentamento della prima parte del brano si scioglie come neve al sole con l’arrivo dell’assolo, che concede il “la” per un ritorno alle sfuriate e agli stop & go che avevano caratterizzato la parte iniziale, salvo poi tornare a rallentare per concedersi un finale più contenuto. “Shame on You”, dopo un’introduzione più cupa, si concentra maggiormente sulla malignità di Mario, che sputa veleno sorretto dal resto del gruppo e confeziona così un altro brano cangiante ma che, a differenza di quello che l’ha preceduto, non mi ha convinto appieno: se, dal punto di vista strumentale, la canzone funziona egregiamente grazie ai continui cambi di ritmo e alle repentine accelerazioni che profumano di Bay Area, è proprio la resa vocale di Mario che qui risulta un po’ altalenante, andando leggermente a detrimento del pezzo. Per fortuna si torna sugli scudi con la successiva “Religion is a Killer”, traccia furiosa ma dagli inaspettati quanto fuggevoli attimi di melodia in cui, forse grazie alla prestazione vocale più acida unita ai riff aggressivi, ho avvertito il profumo di un celebre gruppo delle parti di Genova e ho sorriso soddisfatto, pensando agli sfracelli che questa canzone farà dal vivo. Bene così.
La chiusura di questa Quinta è affidata a “Nevermind”, traccia acustica dal sapore intimista e rilassato che, però, mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca. Per quanto ben scritta e discretamente eseguita, infatti, la traccia non raggiunge lo scopo, troncando improvvisamente la carica dell’album senza stemperare adeguatamente l’adrenalina accumulata e lasciando così, almeno a mio avviso, l’ascoltatore perplesso. A poco serve, poi, il finale distorto, che sembra piazzato lì come una sorta di ripensamento postumo appiccicato in coda alla traccia acustica per ricordare ai fan che i Vendetta sono un gruppo thrash. Mah.
Ad ogni modo, nonostante la conclusione amara, sono piuttosto soddisfatto da questo quinto lavoro dei Vendetta: “The 5th” è un lavoro solido che, sebbene non sia destinato a rivoluzionare la scena thrash mondiale (cosa che peraltro nessuno pretendeva), garantisce tre quarti d’ora scarsi di musica robusta e una sana dose di headbanging per mettere alla prova la vostra colonna vertebrale.
Niente male.