Recensione: The absence of presence
I Kansas del nuovo millennio non sono più la band di giovani volenterosi in quel di Topeka con debuttò nel 1974 per poi arrivare col tempo a vendere 30 milioni di copie in tutto il mondo, sfornando album di platino e proponendo concerti memorabili. Kerry Livgren, Robby Steinhardt e Steve Walsh non fanno più parte della band, restano in gioco Billy Greer, Phil Ehart e Richard Williams a rappresentare la vecchia guardia e lo fanno in modo ammirevole.
The Absence of Presence è il sedicesimo studio album e segue il buon The Prelude Implicit del 2016 e il celebrativo Leftoverture 40th Anniversary Tour. Dopo alcuni rinvii il disco esce per InsideOut, label che con lungimiranza ha puntato sulla storica band americana. Si tratta, dunque, di un full-length nato non per stupire ma per confermare quanto di positivo i Kansas possono ancora proporre a quasi cinquant’anni dalla loro nascita, con un sound “modernizzato” ma non snaturato in toto rispetto a quello delle origini.
La titletrack in apertura con i sui otto minuti sognanti è un ottimo biglietto da visita. Spicca nel mix il bassodi Billy Greer (che sovrasta le chitarre) e i sintetizzatori predominano come in ogni disco prog. che si rispetti. La voce di Ronnie Platt si conferma calda e potente (ricorda quella di Nick d’Virgilio) dimostrandosi più che adatta per impersonare la musica del combo statunitense. Più in generale il sound è vicino a quello degli Spock’s Beard dell’era post-Morse, ma anche ai migliori Cast e IQ, gruppi eredi dei Kansas e che oggi appaiono curiosamente procedere in parallelo. Il valore aggiunto dei snotri resta inoltre il violino di David Ragsdale e una costante ricerca melodica, trademark che ha reso immortali i Kansas di Leftoverture e Point of Know Return. Ottimo il groove e le linee di basso in “Throwing mountains”, pezzo dal piglio deciso e tra i più quadrati del platter. Da segnalare anche la breve strumentale “Propulsion 1”, trascinante e divertita, cui segue la ballad “Memories Down the Line” e gli unisoni di “Circus of illusion”. Anche gli ultimi 15 minuti presentano brani interessanti. Si va dalla ritmica serrata di “Animals on the roof” alla seconda ballad in scaletta, “Never”, per finire con i tempi dispari di “The Song the River Sang”, forse il miglior brano dell’album, epitome di quanto di buono sappiano ancora inventare i Kansas nel 2020.
The absence of present è un album solare che ci farà da colonna sonora in questa estate complicata. Una line-up validissima ha saputo reinventare lo spirito dei Kansas e il risultato è superiore a quanto fatto dagli ultimi Yes. Se il gruppo americano continuerà su questi livelli ben vengano nuove uscite discografiche, le ascolteremo con sincero piacere.