Recensione: The Absolute Universe
Tornano dopo sette anni i Transatlantic e lo fanno in grande stile, con un momentous project dal titolo “esagerato” e un artwork a metà tra tradizione e innovazione. Il logo della band è rimasto il dirigibile futuristico di SMPT:e ma ora sfoggia la nuova forma voluta da Thomas Ewerhard e viaggia spedita in un universo dai colori psichedelici… Registrato in Svezia e poi rifinito a distanza a causa della pandemia, The Absolute Universe è quanto di meglio riescono ancora a proporre i quattro mostri sacri che compongono il supergruppo a vent’anni dalla fondazione della band. Portnoy nella fattispecie resta attivissimo e, dopo il secondo capitolo targato Sons Of Apollo, la partecipazione all’album solista di John Petrucci e l’imminente uscita targata LTE, non ha mancato l’appuntamento con Neal Morse e compagni per dare un prosieguo al precedente Kaleidoscope. La quinta fatica in casa Transatlantic per stessa ammissione della band è accostabile a The Whirlwind per quanto riguarda l’approccio concettuale che ha fatto lievitare il songwriting fino a creare una big monster track, divisa successivamente in movimenti separati per un totale di 90 minuti di musica progressive.
È tanta, dunque, la carne al fuoco che il gruppo, su visione illuminata del bassista dei Marillion, ha deciso di proporre due versioni diverse del platter, cambiando il titolo dello stesso, e peccando forse in megalomania, ma sicuramente venendo incontro agli ascoltatori meno tenaci che opteranno per la versione abridged invece dei 90 minuti abbondanti di quella extended. Dal punto di vista musicale non tornano le sonorità eccellenti di SMPT:e e Bridge Across Forever, ma quei due album restano delle pietre miliari nate in un periodo storico che vedeva i quattro musicisti in stato di grazia. The Absolute Universe propone in modo più prevedibile l’approccio di recente corso della band, che punta a un sound quadrato con la linea ritmica in risalto, armonizzazioni vocali retrò e continui cambi di atmosfera. Non manca in definitiva un buon eclettismo e questa volta l’ispirazione è su buoni livelli: non si sbaglia poi di molto dicendo che il quinto studio album in casa Transatlantic sia il migliore dai tempi dello iato d’inizio millennio che ha visto la band scomparire per alcuni anni.
Se Trewavas ha spinto per la doppia versione del platter, va a Portnoy il merito di aver reso il tutto concettuale, collegando le liriche dei brani a temi che riguardano le difficoltà della società moderna (“struggles in modern society”) inclusi dei rimandi alla “crazyness” dell’anno che ci siamo da poco lasciati alle spalle, segnato dal COVID-19 (ma non solo). Volendo analizzare l’album ci soffermeremo sulla versione extended, salvo lasciare nel finale qualche considerazione sul confronto con la versione abridged, che non è affatto da sottovalutare.
L’overture da otto minuti che apre il sipario è un biglietto da visita privo di sbavature e mette da subito in chiaro come l’alchimia del quartetto sia rimasta iperefficiente. Lo stile inconfondibile di Stolt si sposa ai sintetizzatori sbarazzini di Morse, mentre Portnoy è sempre incisivo alle pelli, coadiuvato dal basso pulsante e “narrativo” di Trewavas. Nell’opener compare anche per la prima volta il leitmotiv che ci accompagnerà sino alla fine del concept, una manciata di note che si memorizzano in pochi secondi e che verranno riproposte in più canzoni con le dovute varianti. C’è una chiara autocitazione nel titolo di “Heart Like A Whirlwind”, ma la cosa non fa storcere il naso, quello che conta è la musica e in questo caso la voce fatata di Morse e quella più accessibile di Trewavas ci guidano lungo un pezzo fresco e solare. Parti di Hammond e linee vocali alte caratterizzano “Higher Than The Morning”, dove ritroviamo anche il guitarwork spigoloso e sapido di Stolt, che pure al microfono si conferma un maestro indiscusso. “The Darkness In The Light” ha un inizio vicinissimo agli ultimi The Flower Kings, procede in modo chiaroscurale e sornione, ma nel ritornello è un piacere ritrovare gli acuti rock di Morse, che torna a vestire la parte del mattatore in “Swing High, Swing Low”, una ballad facile facile, ma per niente stucchevole, che si conclude con un assolo tiratissimo di Stolt.
Il primo disco si chiude con altri tre brani di breve durata e una mini-suite da nove minuti. Nel trittico appena menzionato spicca la floydiana “Bully”, pezzo nostalgico che richiama i migliori concept dei Seventies; Portnoy riesce a infilare una breve parte di doppia cassa, mentre il connazionale losangelino si diverte con alcuni acuti ruffiani. Stupisce nel prosieguo l’accostamento senza soluzione di continuità tra le armonie pervasive di “Rainbow Sky” e le strofe di “Looking For The Light”, irruvidite dalla voce graffiante (e una volta tanto non del tutto fuori luogo) di Portnoy al microfono. E cosa dire di “The World We Used To Know”? Sarà la gioia per i fan dei The Flower Kings, almeno fino a metà minutaggio, poi subentra Morse e tutto diventa più “gospel”, ma la qualità musicale resta invariata, anzi il punto forte dei nostri è proprio l’abilità di unire queste due anime compositive in modo convincente potenziandole entrambe.
Il secondo cd è leggermente più corto del primo e inizia con una ripresa in grande stile: “The Sun Comes Up Today” inizia infatti con un coro a cappella fatato e prosegue riproponendo il sound dei Transatlantic più raffinato che mai. Segue il primo accenno a “Love Made A Way”, pezzo di chiusura di The Absolute Universe qui presentato in forma di breve preludio da Morse al microfono e semplici parti di chitarra acustica come sottofondo. Giusto un assaggio di cosa ci aspetta… È la volta infatti della follia contenuta in “Owl Howl”, sette minuti di stampo The Flower Kings, quelli più labirintici e oscuri. Un pezzo forse non dei più memorabili ma che arricchisce il platter di una componente insinuante e ben accetta (anche perché sono chiari i rimandi a certi King Crimson). Molto più diretta e solare la ballad “Solitude” con Trewavas a cantare alcune strofe e una sezione d’archi nel finale ad arricchire il tutto. Forse uno dei pezzi più riusciti del full-length nella sua immediatezza. “Belong” è un breve divertissement con un intro che sembra cantato dei Minions e un prosieguo che ripropone il leitmotiv iniziale comparso nell’overture. Molto breve anche “Lonesome Rebel”, pochi istanti di poesia interpretata da Roine Stolt con la sua ugola che viene direttamente dai tempi di Flower Power, i nostalgici andranno in brodo di giuggiole…
Ma siamo arrivati agli ultimi tre pezzi in scaletta, è la volta di alzare nuovamente i bpm e “Looking For The Light (Reprise)” ha un avvio quadrato, con linee di basso corpose che se la vedono con un Hammond e sintetizzatori; la sezione centrale presenta alcune parti “nervose” che riescono a creare un minimo di suspense nell’ascoltatore prima della catarsi finale del concept. Gli ultimi dieci minuti sono affidati a “The Greatest Story Never Ends” e la già menzionata “Love Made A Way”. C’è spazio per un’immancabile tributo ai Gentle Giant con Morse che ripropone una parte a più voci con ritmi sovrapposti (come suole fare da vent’anni ormai) e l’epilogo è da brividi con un brano che si rivela ispirato e trascinante nel suo incedere crepuscolare. “Love Made A Way” è proprio un bel pezzo, in stile Neal Morse, quasi quasi vengono in mente i tempi di Snow…
Che dire? Dopo un’ora e mezza di musica targata Transatlantic le impressioni sono più che favorevoli. L’album ha un peso importante, richiede più ascolti per crescere, ma alla fine si rivela per quello che è, un altro ottimo disco del supergruppo di Portnoy & Co. Siamo a un livello leggermente superiore rispetto a Kaleidoscope ma non si raggiungono le vette del debut album. Ciò detto, diamo merito ai nostri Fab Four di aver realizzato un’opera con una sua raison d’être, valorizzata dal mix di Rich Mouser e da una produzione priva di sbavature.
L’assenza di Daniel Gildenlöw, in ultima analisi, non inficia la qualità dell’album, non lo rende meno variegato, il concept va gustato testi alla mano, magari con l’edizione deluxe in doppio vinile e poi c’è la versione abridged tutta da scoprire, non dimentichiamolo. La forma abbreviata di The Absolute Universe presenta diverse differenze rispetto a quella extended, non solo nei titoli ma anche nella resa degli intro, degli outro e nello scambio di parti vocali da Stolt e Morse. Cercarle e capirne il senso si può rivelare un passatempo divertente, la trovata di Trewavas non è poi così peregrina e potrebbe ripetersi in futuro.