Recensione: The Age Of The Return
Eternal Soul, opera prima dei capitolini Martiria, è stato, per quanto mi riguarda, uno dei lavori più riusciti, interessanti e per certi versi originali usciti in questi ultimi anni, un disco che partendo da solide radici classiche è riuscito nella difficile impresa di rinverdire un genere apparentemente stantio come quello dell’epic metal, rielaborandolo inglobando una forte componente personale opportunamente influenzata dagli storici maestri del genere che vedono come modello principale le atmosfere epico sognanti dei seminali Warlord. Canzoni (presenti nel loro primo disco “Eternal Soul”) come “Babylon Fire” o “Romans and Celts” sono entrate di diritto tra i classici dell’epic a livello mondiale, ma, come spesso accade, all’eccellente qualità di un prodotto non corrisponde un giusto riconoscimento. Gli ottimi responsi tributati dalla critica non sono serviti ad imporre Eternal Soul al grande pubblico relegandolo all’ovazione circoscritta dei fedeli ed immortali seguaci dell’antica fiamma dell’epic metal. Oggi, a distanza di due anni da questo splendido lavoro i Martiria tornano prepotentemente sulle scene confezionando con questo nuovo “The Age Of The Return”, un mastodontico concept sulla Bibbia, un disco che il tempo consacrerà come uno dei massimi traguardi qualitativi raggiunti da una band italiana in ambito metal. Un lavoro impeccabile e ricercato, dove la passione per la musica trasuda al passaggio di ogni singola nota e che trova nella ricercatezza delle liriche il salto di qualità “adulto” che molte epic metal band non riescono a varcare.
Dopo un breve intro (Last Change) irrompe con tutta la sua carica epic la spettacolare A Cry In The Desert di certo la canzone più sostenuta dell’intero lavoro. Il chitarrista Andy Menario parlando dell’incontro con il vocalist Rick Anderson mi disse “ ero alla ricerca di un cantante che sapesse cantare epic metal” . Ascoltate e capirete cosa voleva intendere. L’incedere battagliero trova la sua massima enfasi nella spettacolare linea vocale magistralmente interpretata dal leggendario Damien King III ( ex Warlord). Cambi di tempo e di atmosfera consacrano A Cry In The Desert come una delle (tante) hit del disco. L’inizio della successiva “Misunderstandings” mi ha ricordato gli episodi più vivaci dei due capitoli Lordian Guard, un song anch’essa giocata sull’eccellente prestazione vocale di Anderson.
Con “The Giant And The Shepherd” ci addentriamo maggiormente in quei territori epico evocativi che avevano caratterizzato la qualità dell’esordio. Episodio di sicura presa ma che deve però necessariamente lasciare il passo alla successiva “Exodus” puro epic metal d’altri tempi dove ancora una volta il cantato simil narrato risulta essere l’arma vincente, una voce calda ad avvolgente che raramente si addentra in territori eccessivamente alti. A costo di essere ripetitivo non posso che ribadire ancora una volta la paradisiaca interpretazione di Anderson nella acustica epic ballad “Regrets ( Judas)” uno splendido affresco medievaleggiante sorretto da semplici ma efficacissimi arpeggi di Menario.
Con “The Cross” si tocca forse lo zenit di The Age Of The Return, strani e angoscianti cori dal sapore gregoriano coadiuvati da una prima parentesi con il solo Anderson che anticipa da li a poco l’entrata di un riff pachidermico che lo stesso Tony Iommi non scrive ormai dai tempi di The Headless Cross. Un riff spettacolare che riassume in una sequenza di accordi l’ideale sintesi tra gli episodi più tetri e vagamente doom dei primi lavori del sabba nero con l’epicità solenne degli stessi sviluppata nella loro seconda incarnazione attraverso canzoni come The Sign of the Souther Cross.
Il brano si snoda attraverso i suoi oltre otto minuti inglobando diverse sfumature sia a livello vocale sia dal punto di vista strumentale. Molto bello il duetto che vede Anderson confrontarsi con la moglie Barbara.La lunga introduzione di “Hell Is No Burning” ci immerge in un atmosfera indefinita sorretta da un tappeto tastieristico che amplifica l’epico riff portante prima che il tutto venga poggiato su di una struttura alla “The Rime of The Ancient Mariner”. Strofa e ritornello accentuano la sensazione epico crepuscolare che pervade l’intero The Age Of The Return.
Dopo tanta grazia era lecito aspettarsi una battuta di arresto, niente di più sbagliato, con la successiva”Memories of a Paradise Lost” i Martiria ci deliziano con un altro capolavoro che non esito definire come una delle più belle song scritte fino a questo punto della loro carriera. E’ ancora un inizio atmosferico a caratterizzarla e come da copione l’epic metal targato Martiria si impone con l’entrata dell’ennesimo riff vincente di Menario. Al solito la struttura varia con il proseguire dell’ascolto ed ancora una volta non posso che tessere le lodi e sottolineare le splendide linee vocali non chè l’interpretazione più toccante dell’intero disco.
Stesso discorso si potrebbe fare anche con la penultima “Revenge” dove tutte le caratteristiche fino ad ora elencate confluiscono in un dipinto arcano disegnato con abile maestria in poco più di sei minuti. La chiusura è affidata alla title track, ennesima gemma di suggestivo epic metal che vede il suo apice nell’immediato ritornello che non faticherebbe a ritagliarsi il momento di massimo coinvolgimento in un ipotetica esibizione live.
La ricercata vena creativa riscontrabile nella mai monotona struttura di ogni singola song, la maniacale cura dei particolari che vanno da un semplice effetto sonoro atto ad evidenziare anche il più piccolo passaggio strumentale, l’inserimento mirato e mai invadente di cori resi caldi e ad avvolgenti dalla presenza in studio di una vera sezione di tenori, soprani, bassi e contralti fanno di questo disco un lavoro impossibile da capire ad assimilare se non dopo numerosi ed attenti ascolti, un lavoro che cresce pian piano e che vi saprà regalare momenti di rara intensità musicale, un lavoro che credo non potrà non convincere gli appassionati del genere ma che consiglio anche a chi sa apprezzare la buona musica fatta con cuore e passione aldilà di stupidi ed infantili confini musicali.
Per quanto mi riguarda disco dell’anno.