Recensione: The Anthropocene Extinction
Sono passati tre anni da “Monolith Of Inhumanity”, album che ha segnato, in meglio, una svolta nella carriera dei californiani Cattle Decapitation. Ritenuti dai più di irrilevante spessore qualitativo, magari per una sorta di invidia relativamente alla loro presenza nel roster della Metal Blade Records, il quartetto ha dimostrato che, invece, la sostanza c’è. Eccome. Immutata nella line-up, la band ha ottimizzato il tempo trascorso da quel lavoro concretizzando “The Anthropocene Extinction”, settimo full-length di una carriera lunga ormai diciannove anni.
Se davvero i Cattle Decapitation siano stati delle… ‘schiappe’, l’evoluzione da essi compiuta è stata allora strabiliante. Fedeli sino alla sofferenza fisica al loro credo musicale, al loro progetto artistico, alla fede nei propri mezzi, i Nostri, senza tirare in ballo gli arzigogoli del technical death metal, hanno saputo far maturare il loro stile in una mescolanza di brutal death metal e deathcore; con una netta predominanza del primo rispetto al secondo. “The Anthropocene Extinction”, difatti, è frutto di una abilità tecnica eccellente. Condizione assolutamente necessaria per dar luogo alla tempesta sonica che sconquassa, martoria, sevizia ciascuna song del platter.
La pressione esercitata dal sound del quartetto di San Diego è abnorme, sostenuta da un ritmo a volte parossistico, che trafila dalla mente per proiettarla nell’ipnotico stato di trance da hyper-speed. I segmenti di furia totale sono ubicati ai limiti delle umane possibilità: impossibile, al giorno d’oggi, che degli uomini riescano a superare i paletti di confine piantati da brani quali, per esempio, “Mammals In Babylon” oppure “Not Suitable For Life” o, anche, “Apex Blasphemy”.
Ma l’indiscussa bravura dei Cattle Decapitation non consiste solo nella manifestazione di una perizia tecnica fuori dal normale. Si rinviene, soprattutto, nella bontà dei pezzi. Piuttosto vari fra loro, sebbene legati dall’ossessione annichilente per la devastazione totale, mostrano una chiara volontà di differenziare il songwriting sia all’interno del pezzo medesimo, sia fra uno di questi e l’altro. Il tutto, sotteso al minimo comune multiplo che tratteggia il marchio di fabbrica dell’act statunitense. Sino a giungere, addirittura, a una ‘hit’ dall’interessante, semi-melodico e stridulo ritornello, “Plagueborne”. Seguita da “Clandestine Ways (Krokodil Rot)”, dimostrativa della buona vena solista di Josh Elmore, autore di lancinanti soli al fulmicotone su ritmiche alla velocità della luce. Trovando, incredibilmente, il tempo di tirar fuori note e scale per nulla campate in aria.
Alla fine il concetto è chiaro: “The Anthropocene Extinction” è un signor disco di brutal moderno, completamente allineato alle sonorità più attuali (“The Burden Of Seven Billion”), seppur leggermente venato di alcune sottigliezze stilistiche provenienti dal metal classico. E, come accennato, da un taglio produttivo che odora di deathcore.
E i Cattle Decapitation? Un missile balistico nucleare.
Daniele D’Adamo