Recensione: The Armor of Ire
Una distratta occhiata alla copertina di “The Armor of Ire” potrebbe far pensare a un disco uscito a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, intrisa com’è dei principali cliché di quel periodo. E invece no! “The Armor of Ire”, debutto dei texani Eternal Champion (monicker che già di per sé dovrebbe far rizzare le antenne a più di un amante del genere fantasy), nasce sul finire dell’Anno Domini 2016 e si va a incasellare dritto dritto in quel filone – sviluppatosi proprio negli ultimi anni e non senza un certo successo – detto NWOTHM. Per i non edotti, la sigla sta per New Wave of Traditional Heavy Metal e consiste, in soldoni, in un recupero a piene mani, da parte di gruppi relativamente giovani, del caro vecchio metallo di stampo eroico dei primi anni ’80, ivi comprese le sue caratteristiche accessorie. Tutto, in “The Armor of Ire”, rievoca il periodo d’oro del metallo pesante che ci consegnò, tra gli altri, gruppi come Brocas Helm, Heavy Load, Cirith Ungol e Omen, la cui eredità si avverte un po’ dappertutto nell’album: dall’estetica heroic-fantasy (anche nei testi in cui, oltre alle citazioni dei grandi del genere come Howard o Moorcock, fanno capolino anche narrazioni di un mondo fantasy creato dal gruppo, un po’ come fatto anche dai nostrani Rhapsody con la saga del Guerriero di Ghiaccio) fino al comparto prettamente musicale, fatto di chitarre taglienti e arcigne, ritmiche muscolari e di melodie gloriose. In particolare, “The Armor of Ire” catalizzò all’epoca l’attenzione collettiva per una resa sonora solidissima che, pur suonando forzatamente ancorata a stilemi vecchi di più di un quarto di secolo, riusciva a trasmettere la giusta carica evocativa e cafona senza scadere troppo nell’eccesso di vanagloria o in una pedissequa riproposizione di materiale già sentito. Merito, a mio avviso, di una certa personalità e soprattutto di un genuino amore per il genere trattato, che permette agli strumentisti di elaborare gli esempi del passato senza sembrare stucchevoli, ma plasmandoli quel tanto che basta per adattarli alla loro sensibilità. Senza dimenticare, naturalmente, un comparto vocale assai particolare, limpido e vagamente nasale, lontano dallo sfoggio di strapotere fine a se stesso e più vicino ad un approccio maggiormente narrativo.
L’album si apre con una discreta bomba: “I Am the Hammer”, dopo un incipit minaccioso e dal pesante retrogusto cinematografico, deflagra con la carica agguerrita e risolutiva di una martellata nel torace. I riff pieni, densi, maligni dei tre chitarristi grattano su una base ritmica lenta e minacciosa, mentre il basso pulsa incessantemente per dare profondità. Su tutto, l’ugola di Jason Tarpey, dai toni distanti e metallici, che dona solennità e pathos alla ricetta. La traccia, una marcia inesorabile lenta e scandita, cede il passo alla più dinamica title track, screziata da un sottile profumo di tastiere a sostenere i riff classicissimi delle chitarre, inframmezzati da schegge melodiche dal piglio più solenne. Anche qui la voce dona alla canzone, una tipica cavalcata, la sua aura antica e declamatoria. L’arroganza torna in “The Last King of Pictdom”, altra cavalcata che arriva direttamente dal primo demo del quintetto e in cui i nostri mettono in mostra, su una struttura dinamica ma anche solidissima, melodie maschie e tracotanza a vangate. Molto bella la breve sezione solista, dall’intenso retrogusto Omen-iano, che apre al finale insistito interrotto di colpo. La successiva “Blood Ice” è una traccia strumentale di due minuti scarsi, utile per creare – almeno nelle intenzioni – un’atmosfera mistica ma che a conti fatti risulta piuttosto superflua, se non per fungere da apripista per la successiva “The Cold Sword”. Anche qui, riff d’altri tempi costruiscono una canzone solida e cafona il giusto, agguerrita e con un doveroso retrogusto eroico e solenne. “The Invoker”, invece, parte lenta, insinuante, sorretta da arpeggi rilassati spezzati da rapide accelerazioni. Il brano giocherella con questi due aspetti per tutta la sua durata, saltellando da un approccio più meditativo a sporadiche sfuriate, chiudendosi poi con una sezione solista che sfuma nella poderosa “Sing a Last Song of Valdese”. Le ritmiche massicce di tipica scuola heavy tornano a imperversare, colorando questa marcia trionfale con toni battaglieri e minacciosi. La traccia si appesantisce ulteriormente nell’intermezzo granitico in cui si colloca una sezione narrata che, a sua volta, apre a un’improvvisa accelerazione; il ritorno dei tempi lenti e quadrati si appropria del finale, chiudendo la canzone con la giusta dose di minaccia e cedendo il posto a “Shade Gate”, strumentale atmosferica che pone il sigillo a “The Armor of Ire” con i suoi toni solenni.
“The Armor of Ire” è un bell’album, sanguigno e diretto, che va dritto al punto senza troppi svolazzi per compiacere l’ego dei musicisti coinvolti ma che ciononostante mette in mostra capacità di scrittura da non sottovalutare; un lavoro volitivo e onesto che sicuramente farà la felicità di tutti i defender e i cultori del metallo duro e puro, e cioè la forbice di utenza per cui è pensato, ma che potrebbe regalare emozioni anche a chi non è avvezzo a certe sonorità grazie a un approccio propositivo ma anche non banale.