Recensione: The Art Of Loss
At day’s end we put down our disguises
with nothing to defend
At day’s end we pick up all the pieces
and learn to love again
Il progressive metal è in declino irreversibile? Anche se i Dream Theater sembrano, effettivamente, essersi allontanati dal dettato metal che li ha resi famosi, meglio non essere troppo pessimisti: restano ancora alcune band in grado di tenere alto il blasone di uno dei generi metal più discussi. Vengono in mente gruppi recenti come Circus Maximus (è in uscita il loro quarto studio album), Andromeda, Headspace; e altri più navigati come Threshold, Shadow Gallery (li aspettiamo prima o poi al varco del nuovo platter) e, soprattutto, i grandi Fates Warning, di cui sono figli putativi i Redemption.
La band californiana propone il sesto LP, dopo 6 anni dal precedente This Mortal Coil (ma nel frattempo hanno dato alle stampe un live album e un box set celebrativo di tre cd) e il risultato è un disco decisamente guitar-oriented e thrashy. I losangelini non ripudiano nulla del proprio passato, sia dal punto di vista del sound (scelte di produzione comprese), sia per quanto concerne i testi, disillusi e ricercati («Lyrically, The Art of Loss isn’t based on an obvious theme, but much of it is about the choice between love and fear» dice Van Dyk). Questo sono i Redemption, band che propone dischi da settanta minuti abbondanti, atmosfere compresse e un afflato lato sensu apocalittico. Oltre al cambio di label (da InsideOut a Metal Blade) colpisce un artwork concettuale, opera di Travis Smith (Opeth, Amorphis) e la presenza di grandi chitarristi quali ospiti. Per ovviare, infatti, all’assenza del fondatore Bernie Versailles, costretto a uscire dalla band dopo un aneurisma, gli americani si affidano a nomi sinonimo di garanzia come Chris Poland, Marty Friedman, Chris Broderick e il nostro conterraneo Simone Mularoni (DGM, Lalu, Empyrios), conosciuto tramite Tom Englund, cantante degli Evergrey.
L’album si apre in modo barocco, con un assolo di chitarra malmsteeniano e un’ottima intesa ritmica. Tutto come da programma, il sound è heavy, la voce di Adler non perde un colpo nonostante i suoi quasi cinquant’anni. Troppa prevedibilità? No, a nostro dire, “The art of loss” scorre piacevolmente, con un refrain melodico, linee di basso corpose e testi smagati. La parte strumentale a metà brano è ricca di virtuosismi (vengono in mente i Therion); circa gli evidenti debiti nei confronti dei già citati Dream Theater (soprattutto nel drumwork) niente da aggiungere, la band di Petrucci resta un punto di riferimento per i connazionali dell’east coast, nel bene e nel male.
Intro che ricorda “Ego painted gray” degli Angra per “Slouching Towards Bethlehem” (lett. “arrancando vero Betlemme”). Si tratta di una composizione dai toni oscuri e testi tragico-biblici («The darkness drops again, but now I know:/Twenty centuries of sleep have been shaken to a nightmare”»), come per la precedente “Leviathan Rising” (da Snowfall on Judgement Day). Gli assoli di van Dyk e Mularoni sono un’infilata di possanza metal, ascoltare per credere.
Si resta su toni granitici con la seguente “Damaged”, arricchita da alcuni synth interessanti. Prima delle due suite in scaletta, “Hope Dies Last” si apre con un’intro al pianoforte che ricorda i migliori Shadow Gallery. I testi si confermano disillusi e mesti («Put faith in enemies more than in friends – they’re much less likely to betray») e, all’inizio del quarto minuto, torna il thrash: i Fates Waring sono dietro l’angolo… La presenza di Poland è valore aggiunto al brano, i testi, nel finale, fanno intravedere uno spiraglio di speranza. Dopo la prima mezzora circa di musica, l’album lascia una buona impressione di sé, ma la monotonia è l’eterno rivale per una band intransigente come i Redemption. “That Golden Light”, pezzo più corto del lotto, è più ottimista in quanto a liriche. Poteva essere una buona ballad, si rivela al massimo una traccia godibile, zeppa delle solite rullate à la Portnoy. Il solo finale di Van Dyck è eccessivamente tecnico, non si poteva emulare Petrucci in modo più pedissequo.
The art of loss è un album chitarristico, dicevamo in apertura, “Thirty Silver”, guarda caso, inizia con un triplice assolo, in ordine Broderick, Poland e Friedman, l’intero “cast” dei Megadeth. Protagonista è la debolezza umana troppo umana dell’Iscariota («Your moral cowardice exposes you and all your insecurities»). Lo sfoggio di tecnica chitarristica ben rappresenta i tormenti interiori dell’apostolo traditore, siamo, tuttavia, su lidi opposti alla più convincente “Kiss of Judas” degli Stratovarius. Gli ultimi secondi affidati a Friedman sono velocissimi, sembra il finale dell’opener di Systematic Chaos.
Mancano tre brani alla fine del platter. Prima della suite conclusiva, lunga ben venti minuti, “The Center of the Fire” e la cover degli Who “Love Reign o’er Me” (già omaggiata dai Marillion negli anni Ottanta) appesantiscono un po’ il full-length. La prima song non lascai traccia di sé, la rivisitazione del brano di Pete Townsend (tratto da Quadrophenia) con al microfono il cantante degli Armored Saint, risulta fuori contesto. Scelta azzardata, anche perché gli acuti di John Bush non sono proprio ineccepibili. Un tributo a una band che ha fatto la storia del rock poteva essere una buona bonus track, ma, in fine di scaletta, non è valorizzata a sufficienza.
Non resta che la suite finale per decidere le sorti del platter. I Redemption hanno regalato ottime composizioni ambiziose in passato e non sembrano voler cambiare rotta per affidarsi alla mera forma canzone breve. “At Day’s End” inizia con arrangiamenti pseudo-sinfonici, seguiti da un synth disturbante. Al quinto minuto le citazioni di Octavarium sono lapalissiane, il drumwork soprattutto. Segue una breve sezione elettronica. All’ottavo minuto un bell’assolo di basso è un toccasana per rifiatare un attimo; poi si citano le ritmiche di “This Dying soul”. Non andiamo oltre, inutile descrivere minuti per minuto una composizione maestosa, che si dipana in un continuum ritmico, ora metal, ora contemplativo, e da sola vale l’acquisto del disco.
Non siamo più di fronte ai primi Redemption, quelli che stupirono con The origin of Ruin (la cui cover resta indimenticabile), bisogna prenderne atto. Il gruppo californiano, tuttavia, rialza il tiro dopo il discreto This mortal Coil e propone un album certamente solido grazie alla presenza di ospiti illustri, ma soprattutto coerente con l’impianto identitario della band. Pochi ci speravano, molti saranno felicemente sorpresi nell’ascoltare The art of loss, magari a piccole dosi, il troppo stroppia, anche per il metallaro più esperto.
p.s. a conferma di quanto detto, circa la generosità della band, nella digipack edition dell’album compare una breve bonus track “Say Something” e un CD con tre versioni diverse di ‘Thirty Silver’.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)