Recensione: The Art of Navigating by the Stars
A volte ritornano. Dopo l’ottimo Uneven (1997) i pionieri del prog metal Sieges Even avevano, almeno apparentemente, deciso di apporre il sigillo finale a una carriera di valore ma povera di blasoni. La grande virtù, e per certi versi anche la massima sfortuna, della band dei fratelli Holzwarth era stata quella di praticare un genere tortuoso e ricercato in un’epoca nella quale anche tra i cultori del progressive metal non era facile trovare chi si discostasse da un’elite che procedeva a una marcia differente. Analoga sorte era toccata, per esempio, anche a gruppi straordinari come Shadow Gallery e Symphony X, ancora lontani dal ricevere la valanga di consensi, e naturalmente di conseguenti critiche, che negli ultimi tempi pare essersi schiantata su di loro.
Ma già nel 1999 qualcosa comincia a muoversi: la nascita dei Val’Paraiso è il preludio alla reunion ufficiale che avrà luogo sei anni più tardi. Nel 2003 ai nastri di partenza i Sieges Even si presentano con gli inossidabili Alex e Oliver Holzwarth, il redivivo Markus Steffen – già axeman della band dall’esordio (1985) al 1991 – e una misteriosa nuova leva, il giovane singer Arno Menses. Un paio d’anni per rodare i motori ed ecco la nuova partenza: è giunto finalmente il momento per la definitiva consacrazione?
The Art of Navigating by the Stars si presenta con una tracklist densa e imponente, constante di otto brani (e una breve introduzione) che si affacciano volentieri oltre la soglia degli otto minuti, per sfondare perfino quota dieci nell’eloquente incipit The Weight. Chi già conosceva i trascorsi del combo teutonico ritroverà fin dal primo assaggio gli ingredienti distintivi della cucina Sieges Even: serpeggianti arpeggi di una chitarra eccezionalmente pulita si issano su un albero ritmico variamente ramificato dai quali sbocciano rigogliose le pulsazioni di un basso mai in secondo piano. Poi, la novità. Per la gioia di chi, tra un cambio di ritmo e l’altro, era già in procinto di perdersi, ecco sbucare dal nulla il buon Arno Menses. Affabili e ben calibrate, ma certamente autorevoli, le sue linee vocali ammorbidiscono le ossa metalliche dello scheletro strumentale e lo ricoprono con uno strato di carne morbida e sottile, sotto la quale pulsa un orgoglioso cuore progressivo. E la sintesi è davvero convincente, sostenuta da un lato dalle incessanti evoluzioni dell’affiatato trio basso-batteria-chitarra, dall’altro dalla melodia rappacificante di vocals duttili e armoniose quali i Sieges non avevano mai conosciuto prima.
Così, mentre Alex Holzwarth stacca a forza la mascella di chi lo fino a oggi lo conosceva solo per le sfuriate in doppia cassa nei trionfali inni rhapsodiani, il giovane e talentuoso singer tesse la sua tela melodica sull’ottima The Lonely View of Condors, fregiandola di cori discreti ma dannatamente efficaci e perfezionandola con un refrain di grande impatto.
Successo peraltro replicato nella gentile To the Ones Who Have Failed, ornata da un piacevole ritornello acustico che porta la dovuta omogeneità all’opulenza ritmica offerta da casa Holzwarth. Riflettori sulle chitarre acustiche anche nella garbata ballad Blue Wide Open, ideale per spezzare la tensione dopo una coppia di pezzi elaborati e multiformi come Unbreakable e Stigmata, nei quali il buon Oliver esplora e rivela le enormi potenzialità del suo basso. Diretto ma troppo breve il riff che precede il rallentamento mediano proprio sul primo dei due brani; indicativo di quello che è forse il principale punto debole dell’album. Infatti, se pure è vero che Steffen riesce a strappare non pochi consensi in fase di arpeggio e di assolo, altrettanto non può dirsi per il suo riffing, troppe volte lasciato in secondo piano oltre che non sempre ispirato. E se gli amanti del prog potranno soprassedere a una simile falla, aggiustata da arrangiamenti di buona fattura e deliziose perle come Lighthouse, quelli del metal potrebbero alla lunga risentire del persistente deficit di potenza cui non sempre l’energia del basso riesce a porre rimedio. A voler cercare il pelo nell’uovo, poi, si può aggiungere che nella loro compattezza sonora i brani, refrattari nonostante la lunghezza a divagazioni ridondanti o fini a se stesse, non conoscono vette qualitative straordinarie. Così l’album scorre fluido e piacevole per un’ora abbondante – e già questo non è poco – senza mai accusare cali di tensione ma senza neppure travolgere. Anche se forse non era nemmeno sua intenzione arrivare a tanto.
Il ritorno sulle scene dei Sieges Even si conferma dunque la lieta novella che i fan della band avevano pronosticato. Se pure vero che alcuni puristi potrebbero continuare a preferire i vecchi album, The Art of Navigating by the Stars, più orecchiabile ma ugualmente ricercato, riuscirà certamente a ritagliarsi una fetta cospicua di meritati consensi. I fratelli Holzwarth, Markus Steffen e la provvidenziale new entry Arno Menses, a detta dello stesso Oliver la miglior voce nella storia della band, sembrano finalmente pronti a dar inizio al nuovo corso dei Sieges Even, oggi rinnovati ma ancora fedeli alla propria identità.
Forse chi era pronto a inneggiare al capolavoro dovrà momentaneamente strozzare il proprio grido in gola, perché a conti fatti manca ancora quel famoso ingrediente segreto che contraddistingue inequivocabilmente le opere immortali, tuttavia – c’è da scommetterci – quel grido sarà solo rimandato.
Tracklist:
1. The Art of Navigating by the Stars (0:29)
2. The Weight (10:13)
3. The Lonely Views of Condors (6:14)
4. Unbreakable (8:59)
5. Stigmata (8:22)
6. Blue Wide Open (5:13)
7. To The Ones Who Have Failed (7:26)
8. Lighthouse (7:41)
9. Styx (8:55)