Recensione: The Art Of Rebellion
Correva l’anno 1992 quando vide la luce The Art Of Rebellion. Era un periodo di discontinuità musicale su più livelli. Tanto per citare qualche esempio noto: Metallica e Megadeth avevano appena smesso di comporre album thrash metal; i Guns n’Roses avevano abbandonato lo street per un rock più patinato; gli Iron Maiden vivevano un periodo di indecisione artistica, persi tra sonorità al limite dell’hard rock e dischi riusciti a metà; cominciava ad imporsi il grunge con i Pearl Jam del debut Ten a scapito di altri generi che avevano spopolato durante gli eighties, hard rock in testa.
La band di Mike Muir veniva dal discreto successo di Lights Camera Revolution, uscito due anni prima, nel quale all’hardcore degli inizi, poi mischiato col thrash, si aggiunse il funk (basti pensare a Lovely, presente per l’appunto nell’album del ’90).
Discontinuità sembrava essere la parola d’ordine, dunque, ed i Suicidal Tendencies non rappresentavano un’eccezione. In The Art Of Rebellion i ritmi rallentano, il thrash si annacqua, la rabbia viene imbrigliata da composizioni più elaborate, il suono diviene più pulito. Cosa resta del passato? I testi, innanzitutto; Mike continua a mantenere le sue liriche in bilico tra insofferenza interiore ed esteriore: come ha sempre fatto, anche qui continua a lottare strenuamente con la società che lo circonda (Gotta kill captain stupid, Where’s the truth) e con il proprio lato oscuro (Can’t stop), i suoi due nemici dichiarati fin dagli esordi. Testi sempre ispirati, imbevuti qui come in passato di insofferenza ed agitazione, struggimento interiore e feroce critica per conformismo, mercificazione e bigottismo. Di Muir si può dire tutto ed il contrario di tutto, ma difficilmente si può sostenere che non viva quello che scrive. Ogni testo, ogni chorus ripetuto con convinzione ed insistenza, trasudano sincerità ed esperienza diretta.
The Art Of Ribellion esprime dunque l’inquieto momento musicale nel quale trova luce.
Le danze si aprono con la coinvolgente Can’t stop, nella quale il futuro horseman Trujillo impedisce agli ascoltatori di restare immobili. Ed è proprio il carismatico bassista con il suo groove a rappresentare uno dei pilastri portanti del disco, assieme all’inconfondibile cantilenante voce di Cyco Miko ed ai frequenti assoli di George, sottostimato chitarrista sempre capace di arricchire i pezzi alla sua maniera.
Per il primo highlight bisogna aspettare la terza traccia Nobody Hears, mid-tempo dal piglio melodico che ancora una volta ci trasporta nello struggimento interiore dell’inquieto Muir, capace una volta di più di scrivere un testo introspettivo di valore assoluto.
Da segnalare anche l’ottima Monopoly On Sorrow, nella quale il main riff viene affidato all’acustica, la quale introduce anche l’accelerazione finale portando l’ascoltatore inevitabilmente all’headbang. Brillante!
E’ la successiva We Call This Mutha Revenge a riportare alla mente i Suicidal Tendencies di un tempo, ma il basso di Trujillo contamina tutto e con lui il sound risulta inevitabilmente differente. Va ricordato che proprio Robert, assieme a Mike, aveva da un anno esordito nel mercato discografico con gli Infectious Groove, irresistibile side-project funk metal, esperienza dalla quale i due tornano arriccchiti di contaminazioni e idee. Aggiungiamoci che dietro le pelli siede Josh Freese, sicuramente un ottimo session man (il suo curriculum parla chiaro), ma dal drumming molto più quadrato e “asciutto” rispetto al focoso R.J. Herrera, che tanto aveva caratterizzato il Suicidal-style in precedenza.
Asleep At The Wheel, primo singolo estratto da The Art Of Rebellion, è ancora dominato dalla chitarra acustica; introdotta dalla inquietante I Wasn’t Meant To Feel This con un Muir sussurrante ed una tastiera acida stranamente ben presente, la traccia fila bene nel suo incedere ipnotico, e contribuisce a chiarire, se ancora ce ne fosse bisogno, la discontinuità rappresentata dall’album col passato della band; altrettanto fa I’ll Hate You Better, altro singolo ed altro momento dominato dall’acustica. Tra le due spicca Gotta Kill Captain Stupid, nella quale è un riff decisamente heavy a far la differenza. Ottimo anche in questo caso il testo e convincente anche il chorus.
E ancora heavy è la struttura di It’s going down, nella quale l’argomento trattato, facilmente desumibile dal titolo, diventa uno psicodramma a metà tra il serio ed il faceto.
La finale Where’s The Truth si fa ricordare più per i momenti solistici di George che per meriti assoluti, ma è ancora una volta un buon pezzo.
The Art Of Rebellion valse a Mike Muir diverse accuse di tradimento da parte dei fans più intransigenti, che mal sopportarono l’abbandono di sonorità più dure e, come spesso accade alle band cresciute e stimate nella scena underground, il “successo” (doverosamente tra virgolette) commerciale, compresi i ripetuti passaggi dei video su MTV. Successo che, va detto, significò anche la possibilità di calcare gli stessi palchi di band planetariamente note quali Queensrÿche, Megadeth, Slayer e Guns n’Roses.
Eppure la band non è mai stata fedele a qualche schema musicale precostituito: c’è sempre stata contaminazione anche nel passato; un tempo si mischiavano hardcore, thrash, speed, ritornelli catchy, cantato pseudo-rap. In questo disco spariscono alcune cose, ma se ne trovano altre, come alcune ritmiche di stampo heavy, momenti acustici e ritmi rallentati. A ben vedere non c’è neanche un brano che possa esser riconosciuto come anthem alla stregua di Join The Army o Pledge Your Allegiance, tanto per fare qualche esempio noto.
Se proprio si vuole trovare un difetto alla svolta qui presente, si può contestare a Muir di aver chiuso in gabbia la furia che aveva contribuito alla nascita di pezzi trascinanti quali Trip At The Brain e You Can’t Bring Me Down. Ma è una gabbia dorata, fatta di tanta qualità e, perchè no, del coraggio di sapersi sempre mettere in discussione.
The Art Of Rebellion è, comunque lo si affronti, un ottimo disco; se oggi non sorprende quanto si ascolta quando lo si mette nel lettore, per comprendere bene quello che ha rappresentato bisogna fare un viaggio di quasi vent’anni a ritroso nel tempo. E se risulta difficile compiere questa immedesimazione col periodo, si può sempre ascoltare il disco semplicemente riscontrandone, ancora oggi, la freschezza e l’ispirazione.
A chi ha avuto la fortuna di vederli allora dal vivo non potranno che risuonare in testa due lettere: “ST”!
Massimo Ecchili
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Tracklist:
01. Can’t Stop 6:39
02. Accept My Sacrifice 3:30
03. Nobody Hears 5:34
04. Tap into the Power 3:43
05. Monopoly on Sorrow 5:13
06. We Call This Mutha Revenge 4:51
07. I Wasn’t Meant to Feel This / Asleep at the Wheel 7:07
08. Gotta Kill Captain Stupid 4:02
09. I’ll Hate You Better 4:18
10. Which Way to Free? 4:30
11. It’s Going Down 4:27
12. Where’s the Truth? 4:14
Line-up:
Mik “Cyco Miko” Muir – vocals
Rocky George – guitar
Mike Clark – guitar
Robert Trujillo – bass
Additional musician:
Josh Freese – drums
Additional parts:
John Webster – keyboards
Dennis Karmazyn – cello