Recensione: The Atlantic
I tre grandi suoni elementari in natura sono il suono della pioggia, che come un possente inno rompe la nostra corteccia mettendo a nudo l’arcana, primitiva e bestiale natura (“Hymns for the Broken”), il suono del vento in un bosco primordiale, che diventa una tempesta quando rivela la fragilità sentimentale della nostra anima (“The Storm Within”), e il suono del grande oceano su una spiaggia, che ricongiunge la nostra individuale costituzione animalesca con la nostra essenza divina al resto del mondo. C’è un immenso oceano sopra il quale la mente può salpare, sul quale i vascelli del pensiero possono viaggiare. Lasciamoci trasportare e prendere il largo in questo intimo viaggio nei meandri della nostra psiche e della nostra anima, la quale, come atto finale, si unisce all’universo. C’è così tanto oltre tutto quello che sia mai stato immaginato: c’è ”The Atlantic” degli Evergrey che vi attende.
Forse siamo stati cullati e ammaliati dalle onde sonore, per questo intontiti, oppure siamo stati stregati dall’incantevole artwork della copertina, ma vi anticipiamo subito: siamo innanzi a un capolavoro. Mi piace pensare che l’eterno mastermind del gruppo, Tom Englund, nell’approcciarsi a questo lavoro abbia avuto un’illuminazione: raccontare come le onde non possano esistere di per sé stesse, nascere dal nulla, ma sono sempre una parte dell’ondeggiante superficie dell’oceano. Così io non vivrò mai la mia vita per sé stessa, ma sempre in funzione dell’esperienza che sta accadendo attorno a me. È una dottrina scomoda, che la vera etica sussurra al mio orecchio: sei felice, essa dice, quindi vieni chiamato a dare molto. Effettivamente sta dando davvero moltissimo, concludo io accresciuto dall’ascolto di ”The Atlantic”.
Lo stato di grazia assoluto e persistente degli Evergrey, riconosciuto sia dai fan che dalla critica, ha avuto inizio con ”Glorious Collision” del 2011 e ha raggiunto il suo apice espressivo in questa trilogia sulle avventure della vita che è cominciata con ”Hymns for the Broken” del 2014, continuando poi con ”The Storm Within” del 2016, per concludersi con ”The Atlantic”, disco oggetto della nostra recensione.
La formula magica e dannatamente efficace con cui si presenta questo nuovo album è la stessa di sempre, unica e indefinita, che unisce un Heavy Metal, “apparentemente classico”, al Progressive, cospargendo il tutto con le atmosfere decadenti del Dark e ambientazioni quasi Gotiche. Lo definirei un Alternative Progressive Metal. Il loro sound è unico al mondo, riconoscibile soprattutto attraverso la voce di Tom Englund, dalla capacità di emozionare con il suo tono malinconico ma deciso, che non ha eguali. A differenza di album precedenti, qui troviamo un suono ancora più pesante, cupo e desolato, che però, nonostante il tono greve, comunica un senso di speranza e di ottimismo finale.
Il viaggio sulle onde dell’Atlantico inizia con ‘A Silent Arc‘, brano scelto come singolo apripista dell’album. Per accompagnarlo è stato concepito un singolare videoclip che consiste unicamente in un continuo sorvolo tetro e cupo sopra la superficie dell’oceano, come a sottolineare il fatto che a parlare sono le note, le parole e le atmosfere uniche degli Evergrey. Un brano solido e diretto, che inizia come una violenta tempesta con dei riff molto pesanti e ispirati, per proseguire con un alternarsi vertiginoso di momenti più calmi e riflessivi, assoli di chitarre, ritornelli pieni di malinconia e poi di nuovo burrasca. Un brano infinito insomma, come le acque stesse di un oceano. Con un inizio così sfolgorante, il secondo brano, ‘Weightless‘, non poteva essere da meno. La canzone inizia con le stesse chitarre, possenti e secche, che scandiscono un ritmo martellante, accompagnate questa volta dalla tastiera dello storico membro Rikard Zander in sottofondo. Il ritornello è un classico marchio di fabbrica della band, mentre a colpire è la sessione strumentale, tra Progressive e sonorità Post Metal da pelle d’oca. Esempio assoluto dell’essenza del Metallo fatto a regola d’arte! L’incipit di ‘All I Have‘ vale da solo il prezzo del viaggio: chitarre che si dipanano tra distorsioni astratte che diventano un cristallino quadro di pura mestizia e speranza allo stesso tempo. Il tutto assume le sonorità di un’intensa e bellissima ballata che nel suo insieme fa venire in mente uno strano mix tra Pink Floyd e Tool. Ascoltare per credere. ‘A Secret Atlantis‘ è una cavalcata abbastanza classica, ma con una miriade di tracce che si accavallano tra loro durante tutto il brano. Pura delizia per gli amanti dei tecnicismi. Praticamente per tutta la durata del brano assistiamo ad assoli continui di tutti gli strumenti, che si sovrappongono continuamente in una stupenda tempesta fatta di suoni, ritmi ed emozioni. Musicalmente sembra di assistere ad una specie di Jam Session. Alla fine si ha la sensazione che il brano sia durato solo pochi istanti al posto dei suoi abbondanti cinque minuti. ‘The Tidal‘ è una specie di intermezzo che funge da incipit per ‘End of Silence‘, un brano pieno di atmosfere cupe e dilaniate che ricordano i Katatonia per il clima che riesce a generare. La successiva traccia, ‘Currents‘, ha un’architettura un po’ meno strutturata rispetto ad altri brani e presenta un ritornello molto adatto per coinvolgere il pubblico dal vivo. Il brano termina con una lunga sezione sonora d’atmosfera corale e trascendente. ‘Departure‘ è una ballad che riuscirà ad emozionare chiunque. Far commuovere è un’indiscussa capacità del cantante, e con questo brano gli Evergrey sfoggiano queste qualità con una disarmante naturalezza. ‘The Beacon‘ è un brano un po’ provocatorio perché, dopo un inizio elettronico in cui siamo proiettati verso un sound eclettico e futuristico, la canzone viene trasformata con una delicatezza e sensibilità sconcertante. Ci troviamo così ad accogliere con naturalezza una conclusione molto classica, al suono di una chitarra acustica, che solo apparentemente potrebbe sembrare inappropriata, visto com’era iniziata la traccia. Comunque nulla di sconvolgente, siamo sempre in zona Eversound (passatemi il termine). Giungiamo alla fine del nostro viaggio con ‘The Ocean‘, un pezzo che raccoglie in sé tutta l’essenza di questo ”The Atlantic”: è crudo e diretto, con dei riff corposi e violenti, un sound così possente probabilmente non si è mai sentito in casa Evergrey. Ma, allo stesso tempo, emana anche tanta emotività, malinconia, delicatezza e sensibilità. Come le antiche avventure negli oceani, che alternano momenti di pura delizia e sublime bellezza della vita, a delle circostanze molto crudeli e violente, come le tempeste che generano morte, scompiglio e terrore.
Esistono molte band che rispettano l’arte della musica creando semplicemente bellissime uscite discografiche. Altre riescono ad andare oltre, influenzando intere generazioni per coincidenze storico-culturali o semplicemente per la fortuna di fare la cosa giusta, al momento giusto, nel posto giusto. Altre ancora, come gli Evergrey, non influenzano le masse, però sono in grado di concepire un sound tutto loro, riuscendo a creare una forma d’arte autonoma e indipendente.
Nelle altre forme espressive, la creazione coincide e si conclude con l’esecuzione finale. Nella forma espressiva degli Evergrey, per il suo particolare carattere olistico e per il mood molto caratteristico che riesce a generare, l’atto conclusivo dell’opera, potendo essere considerato come realizzato, avviene attraverso la comunicazione finale e definitiva all’ascoltatore, diventando così l’insieme rappresentato dal momento della composizione, dell’esecuzione e dell’ascolto. Un processo ampio e complesso, contraddistinto da un’assimilazione continua, ascolto dopo ascolto.
Vladimir Sajin