Recensione: The Banished Heart
Terzo album in sette anni di vita per gli oceani di languore, band texana che non finisce di stupire per le grandi potenzialità che mette in campo senza alcun timor reverenziale. Ogni ascolto di The banished heart (Il cuore esiliato) è un viaggio sonoro che fa vivere all’ascoltatore stati d’animo contraddittori tra loro. Si passa dalle sfuriate death metal (con blast beat terrificanti e growl) a bruschi ridimensionamenti minimalisti, senza contare le parentesi prog. dalla sicura modernità. La voce calda (e rigorosamente in clean) di Cammie Gilbert è qualcosa di cui ringraziare continuamente la scena metal e, a tratti, la dissociazione tra le sue linee vocali e il comparto strumentale raggiunge livelli di ambiguità che è difficile giudicare sinonimo di genialità o d’azzardo.Come non bastasse l’artwork del nuovo album è un pugno nello stomaco senza se e senza ma: invece del surrealismo di Winter troviamo una foto della ieratica vocalist di profilo, su sfondo scuro, mentre stringe un cuore ancora sanguinante. Rappresentazione estrema del binomio apollineo-dionisiaco, elemento ripreso dai padri putativi Opeth, che però in fatto di artwork restano inarrivabili.
Veniamo alla tracklist. I nove minuti del terremotante e oscuro opener “The Decay of Disregard” (decadenza del disprezzo) non lasciano spazio a dubbi, gli OoS si confermano degni eredi della band di Åkerfeldt che fu e non cedono a tentazioni di semplificazione sonora. Il main-riff ha qualcosa di oscuro e magnetico, ritorna in loop innumerevoli volte, ma con leggere variazioni che lo innalzano a mantra insinuante e solenne. Sembra di ascoltare a tratti i Therion, ma dominano le linee vocali clean di Cammie Gilbert, senza contare le chitarre droppate e nel finale un drumwork con blast beat e doppia cassa disumana, che si sposa magnificamente con i tempi melodici più compassati… E siamo solo all’inizio del viaggio sonoro. “Fleeting Vigilance” inganna nei secondi iniziali, prospettando un refrigerio immediato, invece si rivela nel prosieguo un brano granitico con growl, ritmiche death ed elementi stoner. Non un momento altissimo del platter, ma sempre musica discreta e di qualità. Seguono due pezzi che da soli raggiungono quasi i venti minuti. “At Dawn” non vince il confronto con la title-track, composizione decisamente più eclettica: presenta parti lente con dinamiche da brivido, intervallate dalle solite sfuriate death e nel finale compaiono inserti di musica elettronica atti a creare un sound visionario davvero originale. Stiamo ascoltando un album degli OoS, non dobbiamo stupirci, dunque, di trovare a metà full-length un intermezzo come “The Watcher”, puro nichilismo sonoro, che “rinfodera le armi” prima del sestetto di brani conclusivi. “Etiolation” (letteralmente “scolorimento per assenza di luce”) sembra un pezzo preso da un album di Devin Townsend; “A Path to Broken Stars” ha un attacco heavy con i soliti fuochi d’artificio delle pelli e non presenta growl. La scena canora resta monopolio di Cammie Gilbert anche in “Howl of the Rougarou” (ululato del licantropo canadese), traccia non priva di qualche elemento interessante (su tutti l’avvio semiacustico sempre di matrice opethiana). Si termina in bellezza con un trittico interessante. L’intro di pianoforte “Her in the Distance” prepara l’ascoltatore a “No Color, No Light”, brano chiaroscurale con Tom Englund (Evergrey, Redemption) come ospite a suo agio tra le sonorità offuscate dei texani. Torna il leitmotiv dell’assenza di colore e per certi versi questo intreccio vocale sui generis è un nuovo modo d’intendere i duetti: voci nel deserto, voci che gridano all’anima. L’epilogo ultimo è “Wayfaring Stranger” (sconosciuto vagabondo), niente metal, solo musica da pelle d’oca, tre minuti di sollazzo puro.
Ci si può dire soddisfatti dall’ascolto di The Banished Heart. La produzione supera la prova di ascolti ripetuti, l’album è coeso e anche se a tratti gli OoS peccano di prolissità, bisogna rassegnarsi al fatto che si tratta di una band dall’identità ambiziosa e colta (chi potrebbe intitolare un brano Eziolamento?!). Ottima la scelta di non abusare del growl e lasciare alcune tracce metal totalmente in clean. Restano i tanti rimandi agli Opeth (oltre alla durata di alcuni brani, anche il logo della band è significativo in tal senso) e l’album ha qualche calo di tensione (“Fleeting Vigilance”, “At Dawn”), ma complessivamente abbiamo tra le mani un disco prog. che merita un applauso. Gli OoS si sono meritati una giusta visibilità e l’ingresso nel ristretto novero di female-fronted band dal sound ibrido, quali Echoes of Eternity, Aghora ed Epica.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanhys)