Recensione: The Beast Awakens
Ormai si passa da lì, come dal Via nel Monopoli. La voce priestiana di James Durbin salta fuori dal talent show “American Idol”, dove alcuni anni fa il cantante californiano si era erto a strenuo difensore del verbo metallico. Al netto delle considerazioni sull’effimera spettacolarizzazione del talento in chiave televisiva e del progressivo assottigliarsi della gavetta fatta di club fumosi nella carriera di un artista, va detto che James Durbin è davvero dotato di una gran voce, recentemente (e fugacemente) apparsa anche nella line-up di due dischi di una band storica quale sono i Quiet Riot.
Questo The Beast Awakens è addirittura il quinto album solista di Durbin ed è certamente il più metallico, dove questo va inteso come assoluta dedizione al dio Metallo più conservatore e old school che potete immaginare, benché declinato in suoni e arrangiamenti sullo stato dell’arte, mentre la produzione è sufficientemente scarna da non risultare invasiva e lesiva dell’approccio diretto dei pezzi. Il risultato è un disco solido, con alcune idee che riescono a suonare fresche pur nella totale ortodossia della proposta, a conferma del sincero amore di Durbin per suoni che non potranno non piacere a qualsiasi lettore di True Metal. The Beast Awakens, infatti, è davvero in gran parte frutto della creatività di Durbin, autore dei brani e chitarra ritmica, che pur volentieri si accompagna a ospiti di qualità, come ad esempio Chris Jericho.
The Prince Of Metal apre The Beast Awakens alla grande: metal d’annata (se dovessi dirne una, sceglierei il 1984) illuminato da linee vocali profondamente halfordiane e capace di non sfigurare al confronto. Ad oggi, uno dei pezzi dell’anno.
Più cadenzata è Kings Before You, che poi accelera nel ritornello e nell’assolo, opera di Phil Demmel: il cameo di Jericho arricchisce un pezzo che altrimenti non brillerebbe, come non incide troppo anche la successiva Into The Flames, più vetrina della voce di Durbin che sostanza musicale.
Per i temi epicheggianti e il suo maestoso andamento cadenzato, The Sacred Mountain non può non richiamare l’insostituibile Ronnie James Dio, il cui carisma da cantastorie Durbin, pur perfetto in estensione e potenza, neppure avvicina.
La titletrack del disco si apre con un riff più modernista rispetto al resto del disco, ma nel ritornello torna piacevolmente nei ranghi metallici tradizionali cari a Rob Halford e compagnia.
Evil Eye potrebbe essere un buon pezzo dei Lords Of Black meno progressivi, o addirittura dei Queensrÿche più metallici, mentre Necromancer ha un taglio quasi teatrale, riuscendo ad affrancarsi un poco dai modelli ottantiani che pervadono tutto The Beast Awakens: il risultato è un brano che suona fresco e, forse, più confacente a Durbin che non la riproposizione del metallo che fu e l’inevitabile confronto con mostri sacri del genere, che il tempo ha consegnato all’intoccabilità della Storia. Ma Riders on The Wind torna a girare al contrario le lancette degli orologi e ci troviamo in un epic metal d’antan eccessivamente debitore a Dio, certo di qualità ma in vero privo di quella affascinante patina fiabesca propria del genere che purtroppo la voce di Durbin non riesce a evocare.
Calling Out For Midnight è grezza e diretta, pur non risultando particolarmente incisiva, mentre Battle Cry (titolo così tanto metal) è un bel mid-tempo che strizza gli occhi alla ballad ed è impreziosita da una bella prova di Durbin, che conferisce dinamicità e freschezza a un pezzo che è finalmente più il frutto delle corde proprie del cantante che non dell’affannoso solcare strade già fin troppo battute.
By The Horns è praticamente un pezzo dei Judas Priest dei primi anni ottanta: per carità, a un vecchio metallaro fa sempre piacere ascoltare certe note, soprattutto se sapientemente assemblate, ma quando il tributo scade nella clonazione, la vita del brano si fa effimera.
Meno male che arriva la variegata Rise To Valhalla a concludere The Beast Awakens. Certo, niente di nuovo sotto il sole, ma sano e sincero power metal che ricorda gli Stratovarius e regala qualche momento esaltante.
Alla fine, The Beast Awakens è un disco riuscito a metà, che mostra il potenziale notevole ma non completamente espresso di un James Durbin dalle indiscutibili doti canore, che meriterebbero di essere valorizzate al meglio da una band solida e capace di un songwriting non solo debitore di un passato irripetibile, ma anche capace di guardare al presente, per poi modellare il futuro del genere. Come si dice, bene ma non benissimo.