Recensione: The Beginning of Times
“Sarà il nostro album più temerario.”
Sono bastate queste parole, all’alba dell’uscita di “The Beginning of Times”, per scatenare un vespaio di illazioni e speranze. Gli Amorphis non hanno mai avuto paura di sperimentare nel corso della loro lunga e pluridecorata carriera, anche se – frattura di Elegy a parte – si sono sempre mantenuti su campi tutto sommato sicuri, abbandonato sì il percorso principale, ma senza mai perderlo completamente di vista.
Non è facile prendere alla leggera dichiarazioni simili e visto che, per esempio, tra le mosse ardite figura far uscire cose come Marriage of Heaven and Hell dopo Nattens Madrigal, le speculazioni sono state davvero infinite e verso ogni direzione: un album acustico? un album black metal? avantgarde? le possibilità, specialmente conoscendo il recente impeto di presunzione artistica dimostrato da Koivusaari e Rechberger, coprirebbero un raggio sperimentale decisamente ampio.
E invece il primo ascolto di questa decima fatica dei nostri sei talentuosi finnici lascia abbastanza esterrefatti, perché l’impatto è tutt’altro che quello di un album “speciale”. Parliamoci chiaro: se per temerarietà si intende “arricchimento”, allora gli Amorphis hanno colpito nel segno. The Beginning of Times è, se possibile, ancora più articolato, cesellato e finemente ricamato di album musicalmente “colossali” come Eclipse e Skyforger. Tutte le tracce sono impreziosite da una moltitudine di arrangiamenti ora potenti come bombe atomiche e ora finemente ricamati come veli da sposa, tutti da scoprire con la curiosità di un bambino la mattina di natale.
Soddisfatta la curiosità e tolto l’indubbio e genuino intrattenimento generato dalle tredici tracce offerteci, rimane la sensazione che quest’album non farà altro che approfondire la profonda spaccatura che ha diviso i fan del periodo Koskinen dai fan del periodo Joutsen, lasciando a un bivio tutti i disgraziati che si trovano nel mezzo.
Da un lato, infatti, buona parte del suonato si può tranquillamente categorizzare come metal: le chitarre affondano con forza i denti in buona parte delle tracce, l’eccelso basso di Etelävuori emerge con forza e l’approccio delle percussioni e delle tastiere è quanto di più progressivo finora ci abbiano mai offerto, Am Universum a parte.
L’album suona pensato, ragionato, studiato e celebrato da musicisti di indubbio talento: la sorpresa è sempre dietro l’angolo e le emozioni si rincorrono come la disperata fuga sulla slitta di Väinämöinen, sontuosamente tradotta in parole da un ormai celebre Pekka Kainulainen che ancora una volta sottolinea con maestria l’ossessiva ripetizione dei concetti e delle immagini mitologiche così tipica degli scritti del Kalevala.
C’è da diventare piccoli come insetti sotto il peso del lugubre finale della title track, che tra l’altro lascerà estasiati i fan di quei tipici assoli di tastiera che tanta personalità hanno donato a molteplici lavori del passato, Elegy (The Orphan? Song of the Troubled One?) in testa. L’album attacca con eterei staccati di pianoforte, addirittura accompagnati da graziosi cori femminili in “Mermaid” (stavolta non si tratta di Marco Hietala, nonostante il suo apporto sia evidente negli arrangiamenti e nella sontuosa direzione artistica dell’intero lavoro), per poi improvvisamente perdersi nella brutalità del death più puro di “My Enemy“. E che dire dell’attacco maideniano, abbracciato da una folkeggiata davvero inusuale per gli Amorphis, di “Song of the Sage“? L’album è ricco di momenti toccanti il cui peso da solo non può che influire positivamente sul giudizio finale.
Il problema di fondo, se così lo si può chiamare, è che la quasi totalità delle melodie portanti è praticamente pop. Tutti i brani sono costituiti da una serie di riff talmente catchy e orecchiabili da far precipitare l’album, nonostante la sua vibrante complessità, nel girone di quel pop metal caratterizzato da trame melodiche immediate e di effetto sicuro, talvolta scontato: un figlio di quell’easy listening che ha fatto storcere il naso a ben più di un fan di vecchia data. Ma allora iniziamo a sfatare qualche mito: gli Amorphis non hanno mai prodotto lavori talmente complessi da dover essere digeriti con laboriosità. Escludendo Karelian Isthmus e Am Universum, che meriterebbero un discorso a parte, l’intera discografia degli Amorphis si basa su riff semplici di contorno ad atmosfere a dir poco killer: basta prendere Tales from the Thousand Lakes o Tuonela per rendersi conto di quanto un pugno di riff ridotti all’osso possa intessere lavori di intensità a dir poco ultraterrena. Di riff easy listening è pieno ogni album, ed è proprio questa “accessibilità di alto livello” ad aver creato la fortuna planetaria di sei ragazzetti di Helsinki che hanno iniziato con una pianola bontempi e un cantante che, parole sue, ruttava nel microfono. Un sacco di band ha ruttato e preso a martellate una tastiera negli ultimi 30 anni, ma solo gli Amorphis hanno creato macigni come Black Winter Day o Moon & Sun part I e II.
La causa dei recenti dolori degli Amorphisiani non è da ricercare quindi nella relativa orecchiabilità dei riff, ma è da recuperare più a monte. Ciò che rende di tanto in tanto fastidiosamente “poppose” le canzoni è probabilmente l’approccio di Tomi Joutsen, enfant prodige di Eclipse che ora inizia a diventare, come dire, poco confortevole.
Ottime le prestazioni vocali e genuina la passione tramessa nelle sue molteplici interpretazioni; tuttavia il suo growl appare dozzinale e il suo cantato pulito troppo melenso. La vis scaldica tanto eccitante sugli spartiti diventa occasionalmente piagnisteo e purtroppo sono lontane le sfaccettature isteriche e visionarie di Pasi Koskinen, tanto che per la prima volta da Eclipse ho sentito la mancanza di quel pazzo furioso che è riuscito a donare profondità persino a un album obiettivamente lacrimogeno come Far From the Sun.
Cosa sarebbe stato di un album dalle qualità eccelse come The Beginning of Times se fosse stato in mano a un altro cantante, magari proprio a Koskinen? Probabilmente non avrebbe mai visto la luce perché, come redarguito da Holopainen in persona, gli album recenti sono stati letteralmente modellati attorno alla voce di Joutsen. Tolto il rammarico per quello che sarebbe potuto diventare quest’album, rimane l’indubbia soddisfazione di avere tra le mani una vera fucina di visioni, di emozioni e di sorprese ricercate e al contempo spontanee che spingono all’ascolto… e al riascolto. The Beginning of Times cresce e si gonfia con il passare del tempo e il primo quintetto di brani è già pronto a passare alla storia della band per la sua ricchezza creativa; un po’ più fiacca la seconda metà dell’album, con quel “Crack in a Stone” a dir poco incolore ma prodromo di una title track cimiteriale e senza sbavature come l’uovo che presiede la fantastica copertina e che è responsabile mitologico dell’inizio dei tempi, della storia dell’umanità.
Non è stato superato per malinconia l’imbattibile Tuonela, non è stato superato per ardire il vituperato Am Universum e non sono state raggiunte le vette cosmiche e visionarie di Skyforger: ciononostante, siamo di fronte a un album che si incolla alla psiche come la carta moschicida e che tormenta la memoria finché non viene riascoltato per 50, 100 volte.
Per molti questo The Beginning of Times sarà l’ennesima conferma della classe di una band che non ha più bisogno di dimostrare il proprio valore e per altrettanti sarà l’ennesimo chiodo piantato sulla tomba di un gruppo che ha segnato l’estremo con il suo estro e la sua versatilità e che ha scordato la via contestualmente all’abbandono di Pasi Koskinen. Sia quel che sia, bocciare alla cieca un album di una simile raffinatezza equivarrebbe a porre la barra della sufficienza talmente in alto che il 90% delle band attuali non riuscirebbe nemmeno a qualificarsi per tentare il salto.
Daniele “Fenrir” Balestrieri
Discutine sul forum nel topic dedicato!
TRACKLIST:
1. Battle For Light
2. Mermaid
3. My Enemy
4. You I Need
5. Song Of The Sage
6. Three Words
7. Reformation
8. Soothsayer
9. On A Stranded Shore
10. Escape
11. Crack In A Stone
12. Beginning Of Time
13. Heart’s Song (bonus track)