Recensione: The Beloved Bones: Hell
Avevo lasciato i brasiliani Dark Avenger con un arrivederci pieno di aspettativa quando, l’anno scorso, uscì la ristampa per il mercato europeo del loro “Tales of Avalon: the Lament”, un album che mi aveva piacevolmente impressionato e aveva confermato le indubbie doti del gruppo carioca; li ritrovo, ora, freschi freschi di pubblicazione del già anticipato “The Beloved Bones: Hell”. Inutile negare che aspettavo trepidante il loro ritorno sulle scene: per fortuna, le mie aspettative sono state confermate non appena ho iniziato ad ascoltare questo nuovo nato della band verde-oro. Ebbene sì, signori, lasciatemelo dire fin da subito, così ci leviamo il pensiero: “The Beloved Bones: Hell” non solo è all’altezza del suo già ottimo predecessore, ma a mio modestissimo avviso lo sorpassa in volata facendogli ciao ciao con la manina e candidandosi prepotentemente ad essere uno degli album power metal da battere quest’anno, arrivato giusto all’inizio del corpacciuto rush autunnale.
Per chi ancora non li conoscesse, i Dark Avenger fanno un power metal molto chitarristico in cui maestosità e grinta procedono di pari passo senza pestarsi i piedi a vicenda: tutto ciò è reso possibile dalle loro indubbie doti di scrittura e un notevole gusto per le melodie, che svolgono il loro compito senza mai scadere nella banale pacchianeria strappa-consensi. Detto questo, se nel precedente album solennità e magniloquenza erano tratti preminenti, con “The Beloved Bones: Hell” i nostri decidono di iniziare a picchiare, caricando i brani di un’atmosfera sinistra e luciferina (peraltro già presente, seppur in misura molto minore, anche in “The Lament”) che dona loro una minacciosità decisamente intrigante, anche grazie alla prova maiuscola di Mario Linhares alla voce.
Un malinconico violino apre le danze, introducendo la quasi title track: la traccia si fa via via più pomposa, mentre riff maligni e il suono dell’organo preparano la strada all’ingresso di Mario, che in un primo momento mi è sembrato quasi Warrel Dane per il tasso di sofferta cattiveria nella sua voce. “The Beloved Bones” incede inesorabile, giocando su velocità sostenute ma non troppo e ricorrendo a vigorosi rallentamenti quando servono, spandendo un po’ ovunque l’aura maligna di cui scrivevo poco prima. Come inizio non potevo chiedere di meglio, e con “Smile Back to Me” si procede sulla stessa linea, con lo spargimento di quel profumo oscuro e mefistofelico che così ben si affianca alle ritmiche serratissime e i riff crudeli dispensati dal gruppo. La cattiveria quasi thrash dell’inizio si stempera nel finale, in cui si passa da melodie oscure ma sontuose ad un assolo vocale di Mario, che traghetta l’ascoltatore alla sontuosità di “King for a Moment”, traccia mediamente più scandita e anthemica ma non priva di fulminee e maligne accelerazioni in cui si sente addirittura una spruzzata dei Rhapsody of Fire e del loro “Frozen Tears of Angels”. Ottima l’apertura più epica e quasi romantica che si trova intorno alla metà del brano e che cambia del tutto le carte in tavola, aprendo a brevissimi quanto inaspettati passaggi dal lirismo azzeccatissimo prima di rovinare di nuovo nel vortice dei riff in tempo per il finale. Una melodia vagamente desertica introduce “This Loathsome Carcass”, sinuoso mid-tempo in cui la vena rabbiosa e luciferina del gruppo si stempera in melodie ammalianti ed ipnotiche, dal profumo mediorientale, pur mantenendo un tono cupo e, a tratti, carico di inquietudine. Con l’arrivo di “Parasite” quest’inquietudine permane, caricandosi però di nuova energia grazie al rientro in campo di ritmi più aggressivi e di una voce maligna: i riff tornano a farsi sentire, beneficiando dei cambi di atmosfera per risultare più incisivi quando serve, sferzando l’ascoltatore con le loro improvvise frustate ma cedendo il passo alle sontuose tastiere per insinuare di nuovo la tensione nella traccia. Le tranquille note di un piano introducono quella che sembrerebbe la ballatona dell’album. Dico sembrerebbe perché, in effetti, i nostri piazzano lo scherzone: eh, sì, perché “Breaking up Again”, dopo l’introduzione zuccherosa e malinconica di cui sopra, parte a spron battuto con riffoni imponenti e dinamici e una batteria combattiva, dispensando in pari misura rabbia e sontuosità per rendere convincente il botta e risposta vocale tra voce pulita e ruvida. “Empowerment”, come suggerisce il titolo, fa della carica il suo tratto distintivo, pompando adrenalina insieme alle note e screziandola di solennità durante gli improvvisi squarci melodici. Molto bella la sezione strumentale della seconda metà che precede il finale insistito che ci traghetta direttamente a “Nihil Mind”, traccia dall’appeal quasi stradaiolo. La magniloquenza arriva all’improvviso durante il ritornello, rompendo poi gli argini nella seconda metà (introdotta da un passaggio più raccolto) per dar vita a un finale all’arma bianca. Niente male.
“Purple Letter” torna a puntare su una certa cattiveria di fondo, sorretta da riff pesanti e linee melodiche pregne di inquietudine, mentre Mario giocherella passando da rantoli rabbiosi a note alte e squillanti. Nella seconda parte la traccia rallenta, si prende il suo tempo insinuando atmosfere più compassate al posto della consueta aggressività e una voce femminile a far da contrappunto a Mario in tempo per il finale carico di pathos. Le voci di un coro introducono “Sola Mors Liberat”, la traccia più simile a una ballata incontrata finora. Nonostante la mia ben nota avversione alle ballate, devo dire di aver apprezzato questa breve canzone dall’incedere lento e malinconico ma che non scade mai nell’inutile patetismo, abile ad evitare con classe l’eccessivo sentimentalismo grazie a una chitarra “in odor di Santana” che fa capolino nella seconda parte, sostituendosi al piano.
La chiusura dell’album è affidata a “When Shadow Falls”, traccia distesa in cui Mario sfrutta i suoi toni più dolci e compassati sorretto da una chitarra acustica e percussioni dal profumo carioca. Il brano centra perfettamente il suo obiettivo diluendo, insieme alla ballata che lo precede, la carica aggressiva e maligna del resto dell’album con una conclusione più serena, quasi pacifica, chiudendo questo vorticoso “The Beloved Bones: Hell” con una piacevole brezza rinfrescante.
Cosa resta da dire? Poco, a dir la verità: “The Beloved Bones: Hell” è decisamente un gran bell’album, che pur non presentando dei veri e propri highlight mantiene un ottimo livello per tutta la sua durata e, pertanto, si candida senza indugio per un posto tra i grandi album power (e non solo, secondo me) di quest’anno. Ascoltatelo, non ve ne pentirete.