Recensione: The Big 4: Live from Sofia, Bulgaria [DVD]
Anthrax – Nicola Furlan Voto: 87/100
Se tanti anni fa si sognava di poter presenziare, almeno per una volta, al famoso Clash of the Titans, festival itinerante di inizio anni novanta che vedeva suonare sul palco Megadeth, Slayer, Anthrax, Testament, Suicidal Tendencies e Alice in Chains, oggi, si spera altrettanto con il cosiddetto BIG 4. Questo evento può essere considerato alla stessa maniera del suo avo ovvero un concentrato di puro thrash metal, quello delle origini, quello suonato da alcune delle più importanti band della storia del genere. Ovvio, bisogna mettere alcuni puntini sulle ‘i’. L’animo che spinge questi gruppi ad unire le forze per innalzare l’indice mediatico dell’evento non ha nulla a che fare con la solidarietà giovanile, così sinergica e sentita, di quegli anni. Tanti sono infatti i documenti fotografici che attestano quanto queste band fossero, di fatto, una vera e propria famiglia. Nel corso degli anni, poi, s’è visto che così proprio non era… Megadeth vs Metallica, Metallica vs Slayer… ecc… Se ne sono sentite di tutti i colori. Ma ora sembra esser giunto il tempo della riappacificazione (diplomatica o vera che sia…). Tutti quindi in aereo in giro per il mondo a portare, ancora una volta, chi con più entusiasmo, chi con meno, il verbo del thrash metal ‘Made in USA’. Ancora una volta come un tempo restano fuori nomi importantissimi come Death Angel ed Exodus, ma pure i Testament e i Suicidal Tendencies. Poco importa, la storia, si sa, è spesso impietosa. Ma l’evento è di quelli dal sapore forte. La memoria newyorkese, quella pulsante hardcore/mosh, è presente con gli Anthrax dei leggendari ‘fratelli’ Scott Ian e Charlie Benante. L’esordio di giornata (sono infatti gli Anthrax ad aprire ‘i poghi’…) è straordinario, forse l’esibizione meglio riuscita di tutte assieme ai Metallica. Caught in a Mosh irrompe sulla scena con prepotenza e mette subito in chiaro il concetto che gli Anthrax, sebbene opening act, hanno il loro credo nel ‘mosh’ e pretendono che tale concetto venga ben impresso nei presenti che da lì in avanti saranno colpiti dai soli venti sonici della West Coast, terra natale dei tre successivi esemble. E la East Coast fa il suo dovere con i suoi degni rappresentati che proseguono mitragliando il pubblico con le varie Got the Time, ‘Be All, End All’, Indians, ma pure pescando dall’impegnativo “Spreading the Disease” con Madhouse e Medusa (Joey Belladonna in splendida forma… un piacere ascoltarlo!). Un solo brano dell’era Bush (cantante che sostituì lo storico Joey Belladonna dal 1992 al 2005), quel capolavoro intitolato Only, una dinamica esecuzione per Metal Thrashing Mad ed arriva il brano di chiusura, il manifesto del mosh: I Am the Law. Certo, scorre via tutto troppo velocemente per una band che ha ancora tanto da dire grazie a una palpabile e sincera attitudine, da pelle d’oca! Alla fine resta la sensazione che più che di BIG 4 si dovrebbe parlare di BIG (3+1). La scena newyorkese aveva poco da spartire con quella nata sulla costa occidentale e per questo andrebbe maggiormente valorizzata a livello storico…, ma forse sì, è cosa per pignoli come il sottoscritto. Quello che conta è ben altro e poche parole sarebbero in grado di esprimerlo. Meglio lasciare la sentenza ai documenti musicali di questo favoloso cofanetto, imprescindibile gemma per ogni amante del thrash metal.
Setlist:
01.Caught in a Mosh
02.Got the Time (Joe Jackson cover)
03.Madhouse
04.Be All, End All
05.Antisocial (Trust cover)
06.Indians/Heaven and Hell (Black Sabbath cover)
07.Medusa
08.Only
09.Metal Thrashing Mad
10.I Am the Law
Formazione:
Scott Ian: Chitarra, voce
Charlie Benante: Batteria
Frank Bello: Basso, voce
Joey Belladonna: Voce
Rob Caggiano: Chitarra
Megadeth – Stefano Burini Voto 80/100
“Big 4”. Se ne potrebbe discutere fino alla fine dei tempi, di questa definizione e ognuno in base alle proprie preferenze potrebbe trovare riduttivo veicolare un messaggio di “identificazione” di quello splendido, complesso e duraturo fenomeno che è stato (e in parte continua ad essere) il thrash metal d’oltreoceano in sole quattro band, “dimenticandosi” per strada gente come Testament, Exodus, Annihilator, Death Angel e molti altri ancora. Eppure, senza nulla togliere agli altri, questi Fantastici Quattro del metallo pesante hanno dimostrato nel corso di ormai trent’anni di lunga e (quasi) sempre onorata carriera di essere davvero meritevoli della grande considerazione che il mondo della musica dura ha di loro. Chi in termini di “precocità”, chi in termini di violenza, chi in termini di successo commerciale e chi in termini di commistione di generi, ognuno di questi quattro gruppi rappresenta, a suo modo, una pagina sostanziale di storia e vita dell’Heavy Metal.
Tra di essi, i Megadeth sono stati, per molti e per molto tempo, i “cugini meno famosi” dei Metallica, quelli che hanno (quasi) sempre ribattuto colpo su colpo, anno per anno, ad ogni nuova uscita e ad ogni svolta stilistica dei Four Horsemen, anche a quelle più discutibili, con album il più delle volte di grande pregio e ottenendo ottimi risultati commerciali, per quanto non paragonabili, in termini meramente numerici, a quelli dei ‘Tallica. Eppure nel corso degli anni il personaggio di Dave Mustaine, con la sua grinta, la sua voce così “assurda” e particolare e il suo carattere bizzoso, uniti ad un talento di quelli rari, ha saputo crearsi un seguito e una credibilità (almeno a livello musicale) davvero invidiabili. Addirittura superiore, quest’ultima, negli anni 2000, a quella di Hetfield e compagnia, grazie a una serie di lavori di assoluto rilievo.
L’esibizione in quel di Sofia è dunque di quelle destinate ad entrare nella storia e, scorrendo in anteprima la tracklist dei Megadeth (e l’età media delle canzoni che la compongono), con quei magici titoli interrotti dai puntini di sospensione tra Guerre Sante, Hangar e Sinfonie della Distruzione, la speranza di assistere a un grande concerto è davvero palpabile. Il palco è gigantesco, la scenografia imponente e l’entrata in pista di Megadave, rigorosamente in pantaloni neri e camicia bianca, come da qualche anno a questa parte, e accompagnato dai fidati scudieri, è accolta dalle immancabili urla e dagli applausi della folla. Il riff di “Holy Wars” è di quelli che hanno fatto la storia del techno-thrash così come l’emozionante scalata araba, una volta regno del grandissimo Marty Friedman, oggi affidata ad un eroe più moderno ma altrettanto tecnico della sei corde, l’ex Nevermore Chris Broderick, nei ranghi dei Megadeth da ormai quattro anni.
La mobilità di Megadave non è probabilmente al top, complici forse i numerosi problemi fisici che lo hanno afflitto negli ultimi tempi, ma la prestazione strumentale è impeccabile e anche dal lato vocale non c’è troppo di cui lamentarsi: abbondanti le dosi di veleno dispensate dalla sua caratteristica ugola. Segue “Hangar 18” e il gradimento degli astanti sotto la pioggia battente sale ancor più di fronte alla bellezza e alla qualità dell’esecuzione delle parti strumentali da parte dell’affiatata coppia di chitarre. Lo zoom effettuato su varie riprese ci permette, inoltre, di cogliere particolari davvero gustosi, come la chitarra griffata “Rust In Peace” dello zio Dave o la grancassa “nucleare” di Shawn. Grandi!
Scrivi “Wake Up Dead” e leggi “Thrash/Speed Metal On Top!”, i riff sono assolutamente fantastici, da manuale, gli assoli incrociati della coppia Mustaine/Broderick esaltano a dovere e il lavoro di Shawn Drover dietro le pelli è decisamente carico e convincente. L’unica, rapida, incursione nel presente è riservata all’energica “Headcrusher”, del tutto a proprio agio in mezzo a tanti classici, nonostante un’impostazione più moderna che la distanzia sufficientemente sia dagli anni 80 che dai 90.
“In My Darkest Hour” e “A Tout Le Monde” rappresentano il lato più intimistico dei Megadeth: la prima cupa e crepuscolare, la seconda semplicemente una delle più belle metal ballad di sempre e, se la voce non è forse più quella di un tempo, l’interpretazione sentita strappa comunque brividi e grandi consensi, così come il guitar solo. Tra di esse si frappone “Skin O’ My Teeth”, uno di quei classici a tutta birra che davvero non hanno bisogno di presentazioni, mentre la successiva “Hook In Mouth”, secondo e ultimo estratto da “So Far, So Good.. So What!” è magari meno conosciuta ma altrettanto efficace, anche grazie al suo immortale refrain:
«F, is for fighting, R is for red
Ancestors’ blood in battles they’ve shed
E, we elect them, E, we eject them
In the land of? the free and the home of the brave
D, for your dying, O, your overture
M, will cover your grave with manure
This spells out FREEDOM, it means nothing to me
As long as there’s P.M.R.C»
“Trust” è il jolly che non t’aspetti, il singolo traino di uno degli album più controversi di casa Megadeth, “Cryptyc Writings”, targato 1997, in pieno periodo “mainstream” ed in effetti la differenza di sonorità rispetto ai brani degli anni 80 è decisamente udibile. Ottimo l’assolo di chitarra, forse un po’ in difficoltà Mustaine, rispetto ad altri frangenti.
“Sweating Bullets” e in particolare “Symphony Of Destruction” sono due delle canzoni più famose dei ‘ Deth e l’accoglienza riservata loro dal pubblico è effettivamente degna dei più grandi classici della band. Mustaine tira fuori tutta la malignità del suo cantato e Broderick fa il fenomeno sullo spettacolare assolo di “Symphony Of Destruction”, veleggiando vero il gran finale riservato a “Peace Sells” e ad una reprise di “Holy Wars” in cui Megadave mostra la grinta dei tempi d’oro e Ellefson scapoccia come un ragazzino su uno dei riff più belli di tutta la storia del thrash metal.
Dopo le presentazioni c’è tempo per i saluti di rito di un divertito Dave Mustaine di fronte ad un pubblico decisamente soddisfatto dall’ottimo show a cui ha appena assistito, la migliore conferma possibile riguardante l’ottimo stato di salute di uno dei gruppi cardine di tutto il movimento.
Setlist:
01. Holy Wars… The Punishment Due
02. Hangar 18
03. Wake Up Dead
04. Head Crusher
05. In My Darkest Hour
06. Skin O’ My Teeth
07. A Tout Le Monde
08. Hook In Mouth
09. Trust
10. Sweating Bullets
11. Symphony Of Destruction
12. Peace Sells/Holy Wars Reprise
Formazione:
Dave Mustaine: Voce e chitarra
Chris Broderick: Chitarra
David Ellefson: Basso
Shawn Drover: Batteria
Slayer – Peluso Daniele Voto 60/100
Tempo fa mi ripromisi di evitare di scrivere degli Slayer. I motivi sono innumerevoli, non ultimo l’amore incondizionato che da decenni mi ha tenuto legato alla band californiana, una delle poche che ancora ascolto assiduamente nel panorama metal a stelle e strisce. Come spesso accade, invece, i buoni propositi si sciolgono come neve fresca al sole non appena mi capita a tiro l’occasione per parlare delle gesta dei miei personalissimi paladini del Thrash Metal vecchia maniera.
Questa volta l’occasione è di quelle che fan tremare i polsi, non lo nascondo. Ricordo ancora come fosse ieri le discussioni con gli amici davanti ad infiniti boccali di birra sempre pieni. Si fantasticava, trasognanti, di concerti oceanici, tra mille “se” e mille “ma”, di collaborazioni impensabili tra titani del metal, di eventi mondiali, di poghi indiavolati e di emozioni relegate solo al fervente immaginario collettivo. Perché parliamoci chiaro: per chi come me ha vissuto la giovinezza negli anni novanta, il Big 4 ha avuto il sapore dolce del miracolo.
Mi rendo perfettamente conto che oggi, grazie al vil denaro, tutto è musicalmente possibile. Lo show business ha trovato negli anni sempre più spunti e nuove offerte per soddisfare un mercato che oserei dire cannibale, pronto a ingoiare senza troppe remore artisti, generi musicali, gadget, ed eventi esclusivi (chi ha parlato delle crociere metal?) per poi offrirli su un piatto d’argento a una platea satolla, avida di brani da scaricare, di magliette da indossare, di polsini, bandiere, bare, carta igienica o vino da degustare. In un mercato così schizofrenico, quindi, anche un concerto come quello da noi – allora – giovinastri solo sognato si è materializzato dapprima con questo “Live in Sofia”, seguito poi da un tour mondiale in pompa magna che resterà, volente o nolente, nella storia del Metal. E nei miei ricordi più cari.
Un’occasione così non andava di certo sprecata, ma ahimè parlarne sarà più doloroso e complicato di quanto mi potevo immaginare. Si perché non è tutto oro quello che luccica, almeno dal mio punto di vista. Andrò, per rispetto del lettore e del fan, subito al sodo: dopo aver visto gli Slayer per un numero di volte che faccio oggettivamente fatica a ricordare, posso dire con assoluta certezza che questa è stata l’esibizione più stanca, statica ed incolore che mi sia capitato di vedere. Gli Slayer su quel parco mastodontico mi sono sembrati stanchi, quasi sofferenti in certi frangenti. Proprio laddove la stella maligna del combo californiano avrebbe dovuto risplendere di luce nera, l’immagine che ho avuto davanti è stata quella di un grupo di musicisti vecchi. E, sia ben chiaro, lo scrivo con un crampo allo stomaco difficile da esternare.
Il quadro d’insieme vacilla, ad eccezion fatta per il solito Lombardo, con un Araya che sembra quasi in difficoltà nell’interpretare brani che gli si sono cuciti addosso da sempre, un Hanneman sempre più mastodontico e pachidermico che sembra quasi inglobare per osmosi la sua ESP e un King che, in qualche frangente ripreso anche dalla pessima regia di cui parlerò in seguito, sembra essere fisicamente in affanno. Il sound è sempre lo stesso, su questo non c’è dubbio, cosa che sottolinea la professionalità della band e l’enorme attitudine che la ha sempre contraddistinta. Quello che manca è la scintilla, la scossa d’adrenalina che partendo dal palco è sempre stata in grado di infiammare platee smisurate di fedeli in giro per il pianeta. E non me lo sarei mai aspettato, proprio per la portata storica che questo DVD rappresenta. Ulteriore nota di biasimo per la regia. Scadente, raffazzonata, si perde spesso in inutili dettagli, riprese assolutamente discutibili, immagini sfuocate, tremolanti ai limiti della sopportazione. Un vero peccato anche perché gli Slayer visti a Milano, con tutti i distinguo del caso, furono ben altra cosa. In una generale soddisfazione, in un crescendo di entusiasmi e di toni trionfalistici, credo che gli Slayer siano stati se non la nota stonata, di certo l’esibizione peggiore di tutto il concerto. E lo scrivo con la morte nel cuore.
Setlist:
01. World Painted Blood
02. Jihad
03. War Ensemble
04. Hate Worldwide
05. Seasons in the Abyss
06. Angel of Death
07. Beauty Through Order
08. Disciple
09. Mandatory Suicide
10. Chemical Warfare
11. South of Heaven
12. Raining Blood
Formazione:
Kerry King: Chitarra
Tom Araya: Basso, Voce
Dave Lombardo: Batteria
Jeff Hanneman: Chitarra
Metallica – Orso Comellini Voto 70/100
Exit Light, Enter Night.
Calano le tenebre su Sofia ed è il turno dei Four Horsemen di fare il loro ingresso on stage. Non è un caso che tra i quattro Grandi del thrash metal i Metallica suonino da headliner: tralasciando i (comunque rilevanti) dati di vendita e le ultime produzioni da studio (queste sì, in gran parte irrilevanti), il loro è un moniker che non ha bisogno di alcuna presentazione ed è innegabile l’importanza storica di quella che è stata la prima band thrash a firmare per una major. Tuttavia, in questa particolare occasione, non è poi così scontato riuscire a ‘trionfare’ al cospetto di gruppi che, per un trentennio circa, sono stati in grado di mantenere molto più intatta la propria dignità, come quelli che si sono già esibiti. Anzi, il rischio di sfigurare è abbastanza concreto, incappando magari in una serata storta. Hetfield e soci, però, ne sono ben consapevoli e, oltre a poter beneficiare del supporto della maggioranza dei presenti, possono contare su un’esibizione ben più ampia degli altri ‘Big’ (ben diciotto brani, contro i dodici di Slayer e Megadeth e i dieci degli Anthrax). Una disparità anche troppo eccessiva, non trattandosi di ‘Metallica & Friends’. Ad ogni modo, ciò permette loro di scegliere una scaletta piuttosto intensa e variegata, pescando principalmente dai primi cinque album (fatta eccezione per tre brani da “Death Magnetic” e la pirotecnica “Fuel”). I classici immancabili sono presenti in gran parte, anche se difficilmente tutti i gusti potranno essere accontentati: “Whiplash”, “Fight Fire With Fire”, “Battery”, “The Thing That Should Not Be”, “Wherever I May Roam”, per esempio, sono solo alcune delle canzoni assenti che, in questo evento specifico, in molti avrebbero voluto ascoltare. Sarebbero ancora molte le riflessioni da fare e molte le perplessità, ma quando parte l’intro “L’estasi Dell’Oro” di E. Morricone, ogni volta, c’è spazio solo per una breve ma forte emozione. “Creeping Death” in apertura e la successiva “For Whom The Bell Tolls”, invece, ci offrono l’assist ideale per analizzare quello che ci attenderà proseguendo nella visione del concerto. Nonostante l’incredibile esperienza maturata grazie a interminabili tour, in passato, non è stato poi così difficile finire per lamentarsi delle ripetute imprecisioni di Lars Ulrich (il quale farebbe meglio a occuparsi maggiormente della batteria, invece che alzarsi in continuazione per fare il suo personale spettacolino) e degli indecifrabili soli di Hammett eccessivamente sporcati dallo wah wah, tuttavia i due appaiono piuttosto tonici e coinvolti. Non tutto, però, convince fino in fondo. Prendiamo per esempio l’opener: qui è proposta in una versione veloce, ma abbastanza innocua, in una veste quasi garage, più che dannatamente thrash. Lo stacco ormai abituale, vede il pubblico ripetere a gran voce la parola «Die», ma il seguente attacco della band («Die by my hand») arriva in maniera indolore, mentre un tempo avrebbe tirato giù tutto lo stadio. Discorso simile anche per “For Whom…” (e si potrebbe inserire anche “Sad But True”): niente sbavature, eppure la versione leggermente accelerata finisce per perdere gran parte degli ‘accenti’ e della solennità che danno carattere al brano. Entrambe, quindi, per quanto godibili dal vivo, non trasmettono la grinta e la potenza che ci si aspetterebbe. La serata è appena agli inizi, comunque, e i Nostri in altri frangenti si riscatteranno. Si direbbe, infatti, che abbiano affrontato una prima parte di concerto quasi con sufficienza per portarlo a termine senza cali appariscenti. Forse è in quest’ottica che deve essere giudicata poi la prova (ritmicamente, al solito, irreprensibile) non del tutto convincente di Hetfield, alla voce. Le linee vocali talvolta sembrano cantate in maniera frettolosa e l’imponente frontman spesso cambia leggermente il tono originale per facilitarsi il compito, salvo poi, nei momenti chiave, proporle con la giusta carica e intonazione. Infine, Trujillo, apparso sempre un po’ come un corpo estraneo: bassista molto bravo che tuttavia con i Metallica non ha mai avuto granché da spartire, principalmente perché proveniente da diversi ambiti musicali. Eppure, a parte qualche movenza discutibile, appare un animale da palco, si dà da fare in continuazione, si occupa di gran parte dei cori e prova spesso a coinvolgere il pubblico. Quanto alle note positive della serata, vanno segnalate senz’altro le valide versioni di “Harvester Of Sorrow” e “Blackened”, la potente “Master Of Puppets”, la coinvolgente “Enter Sandman” e l’encore finale composto da “Hit The Lights” e “Seek & Destroy”. Piuttosto interessanti dal vivo anche i brani tratti dall’ultimo full-length (solo “Cyanide” si dimostra deboluccia, nonostante un ritornello accattivante), anche se confermano, talvolta, l’impressione di eccessiva ridondanza: qualche passaggio andrebbe sfrondato. Infine, divertente il siparietto che vede tutti i maggiori interpreti dell’evento (esclusi gli Slayer, con l’eccezione di Dave Lombardo), sul palco a tributare una delle più affascinanti canzoni dell’intero panorama heavy metal: “Am I Evil?” dei seminali Diamond Head. Peccato solo non l’abbiano eseguita per intero, ma solo la cattivissima parte iniziale, resa molto heavy dalla presenza di più chitarre e percussioni. Storico (ma non sapremo mai quanto sincero) l’abbraccio finale tra Mustaine e Hetfield.
Setlist:
01. Creeping Death
02. For Whom The Bell Tolls
03. Fuel
04. Harvester Of Sorrow
05. Fade To Black
06. That Was Just Your Life
07. Cyanide
08. Sad But True
09. Welcome Home (Sanitarium)
10. All Nightmare Long
11. One
12. Master Of Puppets
13. Blackened
14. Nothing Else Matters
15. Enter Sandman
16. Am I Evil?
17. Hit The Lights
18. Seek & Destroy
Formazione:
Robert Trujillo: Basso
Lars Ulrich: Batteria
James Hetfield: Chitarra, Voce
Kirk Hammett: Chitarra
Alla media matematica risultante dai singoli voti dei Redattori, aggiungiamo 10 centesimi di punto per il valore artistico e storico di questa pubblicazione.
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