Recensione: The Big Dream
Torna Lonely Robot, ovvero uno dei tanti, tantissimi progetti che ruotano attorno a John Mitchell, vera e propria istituzione, quasi un santone, del prog inglese. Lonely robot, peraltro, è un one man project, e questo nuovo “The Big Dream” segue a distanza di due anni il debut “Please come home”. Lo scorso anno Mitchell, assieme ai soci del caso, aveva rimesso mano a una delle sue creature più riuscite, i Frost*, il che aveva fatto pensare, almeno al sottoscritto, che Lonely Robot fosse un progetto estemporaneo, destinato a spegnersi nell’arco di un album – non sarebbe stata la prima volta.
Così non è, sebbene, pare, l’estemporaneità sia comunque uno dei cardini di questa idea. Spiega infatti lo stesso artista, tramite comunicato della fida label Inside Out, che il progetto è destinato, molto probabilmente, a tre release, in qualche modo collegate tra loro. Secondo quanto riportato infatti non si tratta di un concept vero e proprio, ma tutto il disco ruota attorno a un’idea, o a una sorta di storia, collegata sia al disco lo ha preceduto, che a quello che seguirà. Nel caso di “The big Dream”, ci troviamo innanzi ad un’astronauta (il ‘Lonely robot’ appunto) che si sveglia da un sonno criogenico e si trova, anziché a bordo della sua astronave, nel mezzo di un bosco dove incontra uomini con teste di animali. E vai, almeno abbiamo capito il perché di quella copertina. Il perché un’idea così surrealista abbia trovato una realizzazione così… ehm… “approssimativa” (a essere gentili), temo non lo scopriremo, invece. Ritornando al concept ad ogni modo, Mitchell ammette di non sapere cosa accadrà nel terzo album, ad ogni modo è lecito supporre che il suo ‘Lonely Robot’ tornerà a casa.
Venendo alla realizzazione in note, invece, va detto che questo ‘one-man-project’ (vale a dire un progetto che ruota attorno ad un mastermind compositore di liriche e testi e motore immbile dell’idea concettuale), non è una one-man-band. Il nostro infatti si avvale di Craig Blundell alla batteria, già suo compagno nei Frost*. A questi si aggiungono il basso di Steve Vantsis (Fish) e le tastiere di Liam Holmes, poliedrico solista solista e scheggia impazzita. Ad ogni modo, chi conosce Mitchell e i suoi progetti dai pluricitati Frost* ai Kino, fino ovviamente a “Please come Home”, precedente album di questo progetto, può già fare le sue ipotesi: un progressive estremamente melodico e contenuto in termini di minutaggio, con tinte beatlesiane e radiofoniche.
Sì, questo è il Mitchell sound, e questo è quello che troviamo in “The big Dream”. Superato il breve intro , ecco subbito “Awakenings”, vero e proprio paradigma dell’album, coi suoi riff elettrici che creano un’atmosfera tesa, pronta ad esplodere in un buon ritornello e a chiudersi con un raffinato assolo. Segue “Sigma”, con il suo riff “alla Verve” e il ritornello anthemico che fanno del pezzo un vero e proprio singolo che avrebbe fatto sfracelli nelle radio degli anni ’90 (e sarebbe pure stato parecchio avanti). Segue una delicata ballad come “In Floral Green”, con un testo che cita vagamente “La bussola d’oro” di Philip Pullman, e abbiamo già una buona idea di come si articolerà l’album.
È piuttosto superfluo dilungarsi, per una serie di ragioni. Se siete su questa recensione è probabile che conosciate già l’indiscusso talento di John Mitchell e la sua indiscutibile abilità nel mischiare certo brit pop acido alle atmosfere più accessibili di Fish e Marillion – in ogni modo prog ottantiano e non settantiano. “The Big Dream” non si allontana da queste lande o comunque da quanto siamo abituati a sentire dal nostro. Ulteriori felici episodi se ne trovano, da “False Lights” a “The divine Art of being”, ma la sostanza è quella.
Nulla si aggiunge e nulla si toglie, e questo è un ottimo aspetto, poiché la garanzia di qualità non scade neppure con questo nuovo Lonely Robot. Chi non conoscesse Mitchell, potrà ricollegarlo piuttosto facilmente ai suoi innumerevoli quanto estemporanei progetti, e non solo per la caratteristica voce del mastermind. Per tutti gli altri, è sufficiente consigliare un ascolto delle band citate nel corso di queste righe. ribadendo che non ci troviamo davanti a musica dura ma a un prog atipico nella sua strabordante melodicità e nella sua immediatezza d’ascolto. Ma non per questo meno affascinante o qualitativo.