Recensione: The Black Crown
È sufficiente solo un nome, Steve Evetts, per comprendere quale sia il genere suonato dagli statunitensi Suicide Silence. Evetts, infatti, è il produttore di “The Black Crown”, loro ultima fatica, ma è anche quello dei lavori di band come i Dillinger Escape Plan, gli Every Time I Die e gli Hatebreed. Genere che, pertanto, naviga all’interno dell’universo *-core e, più specificamente, entro la galassia deathcore nella parte prossima al neonato djent.
Sin da subito, cioè dal 2005, il combo americano ha frequentato i quartieri alti del metal estremo; sia con esibizioni live al fianco dei migliori esponenti del genere (Slipknot, Slayer, Megadeth, As I Lay Dying, Mudvayne), sia mediante la produzione di due full-length di successo: “The Cleansing”, 2008, e “Time To Bleed”, 2009. Ora, con “The Black Crown”, provano a onorare la fortuna di essere nati sotto una buona stella.
Fatto, questo, non così automatico come magari si potrebbe pensare: il sound dell’ensemble di Riverside è tutto, fuorché accattivante. Mitch Lucker aggredisce le linee vocali con le sue nervose harsh vocals ai limiti dell’isteria, relegando a pochi momenti la sua buona attitudine per le clean vocals. Una voce carica d’effetti, ma comunque non fastidiosa, anzi foriera di un’aggressività notevole. Chris Garza e Mark Heylmun, con le loro ruvide chitarre dall’accordatura iper-ribassata, macinano centinaia di riff durissimi, che non concedono nulla ad aspetti legati in qualche modo al concetto di ‘facile presa’. La sezione ritmica, regolata dal basso di Dan Kenny e Alex Lopez, spezza le reni con dei terremotanti breakdown, scegliendo così di prediligere la potenza a discapito della velocità – a parte qualche sporadico blast-beats.
Il suono, quindi, è davvero poderoso e massiccio, alimentato da un mood scuro e freddo che ne fa un parente stretto di quello che avvolge il doom o il black metal. Non c’è una grande originalità artistica, fra le tracce di “The Black Crown”, tuttavia non manca la personalità e la decisione. Presumibilmente, è proprio questa sicurezza nei propri mezzi e nel proprio sound, che ha reso i californiani in grado di competere con i migliori esponenti del deathcore.
“Slaves To Substance”, l’opener del disco, è rappresentativa – assieme alla successiva “O.C.D.” – della proposta musicale dei Suicide Silence. Oltre alle coordinate stiliste più su menzionate, si possono aggiungere il guitarwork di scuola thrash, fondato sulla corda stoppata dal palm-muting, le fulminee accelerazioni e tremendi rallentamenti, le apnee verso le più nere profondità dell’udibile. La violenta e rapida “Human Violence” potrebbe essere, invece, una song degli Spliknot se questi ultimi basassero maggiormente il proprio sound sugli stilemi classici del metal. L’assalto fonico non fa prigionieri, giacché anche “You Only Live Once” è un brano anch’esso durissimo e assai impetuoso. “Fuck Everything” ricorda un po’ gli Oceano di “Depths”, raggelante esempio di come si possa affondare nel buio abissale con la forza, solo, della musica.
Dopo il rabbrividente intermezzo strumentale rappresentato da “March To The Black Crown”, “Witness The Addiction” è l’occasione, per i Nostri, d’inserire degli inserti ambient assai azzeccati che contribuiscono a formare l’umore tetro e vagamente non-umano del CD, arrivando a sfiorare la lentezza del doom. La canzone è, inoltre, l’unica occasione in cui il quintetto a stelle e strisce tira fuori dal cilindro un ritornello in clean, melodico e suadente. “Cross-eyed Catastrophe” prosegue sulla scia del cyber-death da combattimento mentre “Smashed”, come da titolo, è una vera e propria mazzata sulla schiena, attraversata da laceranti soli alla slayeriana maniera. “The Only Thing That Sets Us Apart” propone dissonanti stacchi acustici dal sinistro sapore di zolfo, “Cancerous Skies” chiude le danze con la sua terremotante energia. Energia, tanta, che non mostra soluzioni di continuità lungo tutte le tracce che compongono il platter.
Non male, i Suicide Silence e il loro “The Black Crown”. L’album non ha nulla di trascendentale ma, in ogni caso, è un lavoro degno di attenzione per la sua consistenza e corposità: una brutale sferzata di deathcore (e non di brutal death metal…) da ascoltare al massimo del volume.
Daniele “dani66” D’Adamo
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Track-list:
1. Slaves To Substance 3:27
2. O.C.D. 3:19
3. Human Violence 3:47
4. You Only Live Once 3:12
5. Fuck Everything 4:33
6. March To The Black Crown 1:30
7. Witness The Addiction 5:32
8. Cross-eyed Catastrophe 3:25
9. Smashed 3:06
10. The Only Thing That Sets Us Apart 4:10
11. Cancerous Skies 3:14
All tracks 39 min.
Line-up:
Mitch Lucker – Vocals
Chris Garza – Rhythm guitars
Mark Heylmun – Lead guitars
Dan Kenny – Bass
Alex Lopez – Drums