Recensione: The Black Flame

Di Stefano Ricetti - 2 Novembre 2006 - 0:00
The Black Flame
Band: Wolf
Etichetta:
Genere:
Anno: 2006
Nazione:
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87

Immagine tamarrissima ai bordi di una strada con la falce del “Grim Reaper” che fa tanto anni Ottanta, questo è quello che campeggia sul retrocopertina di The Black Flame degli svedesi Wolf. Sembra ieri quando riuscirono a NON passare inosservati grazie all’orrenda copertina del loro primo album omonimo, anno 2000, una delle peggiori del decennio a opera dell’artista Horror – nel vero senso della parola… ah,ah,ah! Hans Arnold. Seguirono poi Black Wings del 2002 ed Evil Star nel 2004, fortunatamente con delle cover decenti, entrambi dischi che segnarono un’evoluzione nel sound dei Nostri, legato comunque al sano metallo duro degli Eighties: Saxon, Riot, Judas Priest, Metal Church, Iron Maiden e compagnia bella.

Il 2006 vede l’uscita di The Black Flame, l’ultima fatica del cantante/chitarrista Niklas Stalvind, metallaro integralista nonché fondatore degli Wolf insieme con il bassista Mikael Goding, nel caso specifico coadiuvati dall’ex batterista dei Dissection Tobias R Kellgren e da Johannes Losback alla seconda ascia. 

Letteralmente consumando la puntina del mio impianto stereo …ooppss, il laser del lettore Compact Disc sulle note di The Black Flame, ho più volte fatto questa riflessione, che ora vi significo: quanti di noi hanno atteso in grazia, nel profondo del proprio cuore, un nuovo album dei mostri sacri sopraccitati che suonasse con l’energia e il trasporto di vent’anni fa e che poi è rimasto quasi sempre profondamente deluso e scorato? Tanti, presumo… Ebbene, The Black Flame è il disco che si aspettava da tempo, sulla falsariga di Doomsday for the Eretic dei Metal Inquisitor, recensito sempre su TrueMetal dieci mesi fa: puro acciaio rozzo e violento in mezzo alle gengive veicolato da una voce (quella di Niklas Stalvind) proveniente direttamente dagli inferi, che a tratti rimembra il King Diamond negli episodi di estensione vocale più “pieni”. Niente tastiere, due chitarre distorte, un’ugola dannata al microfono, un bass bulldozer e un pestone dietro la batteria: questo sono gli svedesi Wolf!

The Black Flame
Si parte subito imballati con I Will Kill Again: chitarre quadrate e voce al vetriolo, tanto per ribadire il concetto… At the Graveyard è fottutamente Judas Priest nell’incedere, ottime le linee vocali “in crescendo” e micidiale il chorus. Il terzo brano, Black Magic, parte roccioso in virtù del lavoro incessante delle due asce: in questo episodio buon Niklas è più arioso nell’interpretazione e anche questa volta i cori si rivelano irresistibili, realmente “forged in fire”! The Bite, per chi scrive, è l’highlight del disco: si tratta di un pezzo devastante che irrompe con una cavalcata Nwobhm vecchia maniera, subito incalzato da uno Stalvind che rimembra il miglior Bruce Dickinson nell’impostazione ma quello che fa la differenza ancora una volta sono i cori e i contro-cori: da pelle d’oca!

Campane da paesino di montagna aprono Make Friends With your Nightmares, qui il lavoro delle due chitarre non risulta essere proprio memorabile ma ci pensa poi il coro a la Mercyful Fate a mettere a posto le cose: il brano dove il cantante/chitarrista assomiglia di più a King Diamond dell’intero lotto! Demon scorre senza graffiare a sufficienza mentre lo spettro degli originali Metal Church ispira i Wolf in The Dead, altro tassello dal coro assassino. Seize the Night paga pegno a Biff Byford e ai suoi Saxon fino all’urlo liberatorio di Niklas Stalvind che grida al mondo la rabbia ancestrale di un antico metallaro. Il penultimo pezzo, Steelwinged Savage Reaper è un’altra mazzata in mezzo ai denti, con il titolo scandito a mo’ di tuoni dagli svedesi; d’atmosfera il solo di chitarra a metà brano. Si chiude con Children of the Black Flame, dove i “fabbri” Wolf picchiano ancora senza redenzione anche se alla fine il pezzo si rivela abbastanza ordinario, quantomeno rispetto alla maggioranza di quelli che lo hanno preceduto.                                           

I Wolf si divertono e sanno far divertire, nonostante due manciate di titoli minacciosi – dei “classici” per il genere -, alla faccia di chi si prende sempre troppo sul serio e deve “per forza” essere di continuo incazzato, sia in foto che nella vita! Con dieci canzoni spaccaossa, ottimamente prodotte, levano in un sol colpo di mezzo la “presunta concorrenza” e fanno guardare indietro, con tonnellate di nostalgia, i dinosauri dell’HM che hanno perso il vigore dei tempi d’oro!

Molti lo hanno pensato ma non mi è ancora capitato di leggerlo da nessuna parte e certe cose, anche se dolorose, bisogna avere il coraggio di dirle: nell’HM classico c’è assoluto bisogno di rinnovamento. Fra quindici/vent’anni non si potrà pretendere di vedere ancora Manowar, Judas Priest o Iron Maiden come headliner al Gods of Metal, per esempio; così come non potremo sperare di vedere i Saxon o la Ronnie James Dio band in testa al bill del Tradate o dell’Evolution. I Wolf anno domini 2006 possono ambire un giorno a dimorare dove attualmente osano soltanto le aquile… ebbene si, l’ho detto!

Buon headbanging, l’HM che pretendevamo è finalmente tornato!

Play it loud, mighty defenders!

 

Stefano “Steven Rich” Ricetti

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