Recensione: The Black Wild Yonder
Quando un determinato genere, nel caso specifico il death metal melodico, sembra aver già dato il meglio di sé, ecco arrivare qualche band che, con una sua nuova uscita, non fa altro che dimostrarne l’esatto contrario.
Nel caso in ispecie si tratta dei Words Of Farewell. Nati nel 2006, tedeschi, con l’ultimogenito “The Black Wild Yonder” completano una breve sequenza discografica che comprende un EP (“Ashes Of The Coming Dawn”, 2007), un demo (“From Now On…”, 2009) e un altro full-length, “Immersion” (2012).
Un fatto comunque non così inaspettato, comunque, poiché è già da qualche tempo che – ormai spentisi gli echi del gothenburg metal – soprattutto in Finlandia qualcuno ha provato a dare nuova linfa a una specie data da molti (troppi?) in via d’estinzione. Qualcuno come Insomnium e Mors Principium Est, per esempio. Come loro, anche i Words Of Farewell cercano di innestare qualcosa in più sul genere oltranzista del metal per definizione, oltre alla melodia. E questo qualcosa s’identifica in una specie di etere (così com’era definito dai fisici d’inizio Novecento) che avvolge tutto e tutti, soprattutto le onde sonore, come una robusta forza emotiva atta a rendere il death ‘sentimentale’.
Ovviamente non si tratta di romanticismo barocco, che in caso contrario affosserebbe il significato stesso di ‘death’, ma di uno spiccato utilizzo di armonie per struggere e approfondire lo strato di malinconia, di senso nostalgico, di tristezza che così spesso ammanta il metal in generale, in tutti i suoi stili. Il poderoso nonché tecnicamente perfetto growling di Alexander Otto, insomma, diventa un’arma la cui funzione principale è quella di far nascere in chi ascolta una precisa sensazione melanconica, magari non violenta ma invece leggera e diffusa, che ciascuno può identificare con il sapore del tempo che passa e non torna più, con il ricordo di rari attimi di fugace e traditrice felicità, con il profondo e un po’ oscuro stupore che scatena la magnificenza della Natura.
I Words Of Farewell non sono, però, solo questo. Anzi. Detto di Otto e, indirettamente, di Leo Wichmann, tastierista dotato di gran gusto e delicatezza d’intervento, non si può non rilevare la micidiale sezione ritmica, per nulla intimorita quando la furia scardinatrice insita nel combo Marl esplode con la trascinante veemenza dei blast-beats (“Beauty In Passing”). In questi frangenti la pienezza del sound è semplicemente fantastica, giacché una major come l’AFM Records non lesina certo forze ed energie per produrre un lavoro al top in tutti i sensi. Un lavoro che beneficia, ultimo ma non ultimo, dell’eccellente connubio fra i due chitarristi, in grado di sciorinare con ‘teutonica’ continuità e materiale di grande fattura.
Ma, ancora, occorre evidenziare che i Words Of Farewell sono qualcosa di più ancora: un ensemble dalla creatività apparentemente senza limiti, se non quelli stilistici – ottimamente definiti – , ricco di molte idee per movimentare una ricetta di base tutto sommato semplice, universale. Questo indubbio talento, che – come si sa – non s’impara a scuola, è quello che alimenta un songwriting eccezionale, motore di canzoni una più coinvolgente dell’altra. Ricchissime di particolari da scoprire ascolto dopo ascolto, immersi in una matrice fluida e lineare che non stanca mai. Tutte e dieci le song di “The Black Wild Yonder” sono di alto livello. Non ci sono né vuoti di tensione, né artificiali riempimenti. L’album è da gustare nella sua interezza, brano dopo brano, sino ad arrivare al capolavoro cioè a “Riven”, meravigliosa epopea fra le foreste, i fiumi e i mari; una composizione da taglio quasi cinematografico per la sua capacità di coinvolgimento, per l’imponenza delle sue visioni da leggenda, per il languore delle sue melodie, per il suo ritmo dannatamente metal.
Il melodic death metal non è morto. E sin quando ci saranno gruppi come i Words Of Farewell a perorarne la causa, non lo sarà mai.
Daniele “dani66” D’Adamo
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