Recensione: The Blaze
Se The Blaze è addirittura il settimo album dei finlandesi Burning Point, in vero non è che il primo effettivo con Nitte Valo alla voce. Il precedente, omonimo, disco del 2015, infatti, rappresentò un’operazione mirata a presentare la cantante, alternando pezzi nuovi e riproposizioni di canzoni tratte dai precedenti prodotti della band.
The Blaze, invece, è composto di soli inediti (più una cover), offrendo dunque uno spaccato sufficientemente rappresentativo del nuovo corso dei Burning Point.
Se la voce è cambiata, la sostanza della proposta rimane la medesima: heavy power metal modellato su Hammerfall e Judas Priest, con qualche divagazione in territori più morbidi, al limite dell’AOR più robusto.
Niente di nuovo sotto il sole, dunque. L’album si trascina tra melodie abusate e arrangiamenti prevedibili. Certo, la band è professionale e tecnicamente valida, e la produzione è allo stato dell’arte, plasmata com’è sull’ortodossia dominante del genere. Ma non è sufficiente a salvare un disco piatto e sostanzialmente inutile.
Pescando dalla tracklist, si può anche incocciare in pezzi buoni, come Master Them All e Incarnation, molto accattivante grazie a un ritornello che richiama i primi Hammerfall.
Nitte Valo è brava e lo dimostra nella piacevole The King is Dead, Long Live the King, molto ottantiana nel proprio tentativo di rifarsi ai Judas Priest. E a proposito di anni ottanta (dai quali una certa area del metal non è mai veramente uscita), ecco la cover, in vero un po’ prevedibile, dell’inno Metal Queen di Lee Aaron. Ben eseguita e filologicamente retro, il pezzo rivela la propria natura superiore, a livello sia di scrittura che di personalità.
Da evitare, invece, incursioni nel metal più melodico come in The Lie, il cui unico risultato è quello di farmi tornare a spolverare i dischi dei Loudness: altri tempi, altra qualità. Molto meglio, allora, spingere sul pedale dell’acceleratore come in Chaos Rising, il cui riffing è debitore di Ritchie Blackmore, sulla cui immensa influenza esercitata sul mondo metal da almeno quarant’anni a questa parte varrebbe la pena spendere fiumi di parole.
In definitiva, un disco privo di alcuna speranza di rimanere nel tempo. Può meritare uno o più ascolti distratti da parte del metallaro innamorato del power, al punto di farne la propria colonna sonora in ogni momento della giornata. Niente di più, niente di meno.