Recensione: The Bride Said No
Conosciuto soprattutto per essere il cantante della band di Steve Hackett, oltre che per i suoi lavori con gli Agents of Mercy, Nad Sylvan ha recentemente intrapreso una carriera solista cominciata nel 2015 con l’album Courting the Window, un concept dai tratti gotici che si ispirava al tradizionale sound del progressive rock degli anni Settanta. Con il secondo album, intitolato The Bride Said No, il vocalist svedese prosegue la storia vampiresca cominciata con il disco d’esordio, inserendola tuttavia in un contesto musicale differente, più moderno in diversi aspetti.
Anche questa volta lo sguardo va, prima di tutto, ai giganti del progressive rock, Genesis su tutti. Non è un caso se si pensa che, come già detto, Sylvan è stato chiamato da Steve Hackett per portare in tour il progetto Genesis Revisited, anche per merito della sua particolare timbrica che ricorda forse più Phil Collins che Peter Gabriel. Allo stesso tempo si possono notare influenze che arrivano dagli anni Ottanta e Novanta, così come da band neoprog come IQ o Marillion; del resto è proprio nell’ultima decade nel Novecento che Nad ha cominciato a registrare la sua musica, quindi è più che naturale trovare riferimenti a quel periodo.
Dopo la brevissima introduzione di “Bridesmaids” si parte con “The Quartermaster”, che mostra subito un buon tiro e un arrangiamento piuttosto energico nel quale le tastiere hanno la parte del leone. Già da questa opener Nad Sylvan riesce a tessere delle buone linee vocali: il ritornello del brano è forse quello che rimane più in testa col passare del tempo, ma bisogna dire che la maggior parte delle melodie su questo disco funzionano più che bene. Con la successiva “When the Music Dies” si passa già a una prima, ottima, ballata e subito emerge quel richiamo agli Eighties che avevamo già anticipato. Il brano ha un cadenza lenta e costante data da una batteria che fa il suo dovere senza strafare, mentre anche qui le tastiere la fanno da padrone. L’album, dunque, parte su alti livelli, anche se con “The White Crown” si abbassa un tantino l’asticella: pur avendo qualche momento degno di nota il brano non si può definire come uno dei più memorabili e, allo stesso tempo, mostra quei tipici barocchismi che spesso si ritrovano nel progressive più manierista degli ultimi anni. Con “What Have You Done” emerge la vena teatrale di Nad Sylvan, affiancato dalla cantante svedese Jade Ell, che qui ha un po’ più di spazio nonostante i cori femminili siano presenti anche in altre tracce. Il pezzo è una lunga ballata da Pink Floyd degli ultimi tempi che si sviluppa lentamente ma riesce a decollare nella seconda parte grazie agli assoli di due maestri come Steve Hackett e Guthrie Govan. Qui viene davvero spontaneo fermarsi qualunque cosa si stia facendo e ascoltare questi due grandiosi chitarristi esprimersi su un accompagnamento a base di piano, organo e cori con una notevole carica emotiva, regalandoci senza dubbio l’apice del brano ma, ci azzardiamo a dire, anche dell’intero album. “Crime of Passion” è un’altra canzone più movimentata ma non troppo significativa, mentre con “A French Kiss in an Italian Cafe” continua l’alternanza delle ballate che caratterizza tutto il disco. Lo stile si avvicina a quello di “When the Music Dies”, con tanto di assolo di sax a rimarcare l’atmosfera romantica anni Ottanta. Di nuovo Nad merita di essere lodato per una linea vocale riuscita, ben adatta a un pezzo dal quale ci si lascia cullare volentieri. Si chiude con la title-track, un lungo brano che, stando a quanto scrive Sylvan, parte da una canzone che l’artista ha scritto nel 1989, e si sente. Il ritornello è davvero buono e ci sarebbe piaciuto sentirlo di più, soprattutto perché il pezzo mostra del potenziale che però viene sacrificato da una struttura un po’ dispersiva.
Parlando più in generale, potremmo dire che i pregi e i difetti della title-track sono gli stessi dell’album. Alcuni pezzi sono senza dubbio efficaci e rimangono in testa, altri passano lasciando poco o niente. In ogni caso The Bride Said No resta un bel disco, più che dignitoso nel complesso e con alcune canzoni molto azzeccate nel loro genere.
L’avventura solista di Nad Sylvan è cominciata da poco, ma il cantante svedese ha comunque dimostrato di non volersi ripetere e di fare un passo avanti con ogni album, uno sforzo che va sempre apprezzato. Ci auguriamo quindi che possa limare alcuni dettagli e perfezionare il suo stile in quello che sarà, forse, il terzo capitolo della sua storia gotica.