Recensione: The Calculus Of Evil
Arrivare in fondo all’ascolto di questo lavoro, soprattutto le prime volte, può rivelarsi un’impresa non da poco… Non tanto per carenza di qualità, quanto per la mole di materiale “concentrato” che i nostri sfoggiano con questo The Calculus Of Evil. Death Metal ultra-tecnico, suonato con uno stile che non è molto comune per i giorni nostri, fedele ad una tradizione che ha sempre fatto fatica a far presa sul pubblico in maniera consistente. Purtroppo questo gruppo mostra in maniera molto evidente la duplice faccia di questo approccio musicale; porta alla luce le potenzialità che la tecnica raffinata mette a disposizione, ma allo stesso modo ci rende consapevoli degli enormi limiti che porta con sè il puntare così tanto sul virtuosismo (spesso, come quasi per abitudine in questo genere, fine a sè stesso).
La contraddizione è evidente nei primi ascolti, quando, alla già citata fatica di raggiungere la fine del lavoro, si accompagnano momenti al limite dell’estatico, sparsi un po’ in ogni traccia. Le canzoni, per quanto ben costruite e prova di una indiscutibile capacità compositiva, sono comunque in tal senso frammentate: a segmenti letteralmente affascinanti, se ne alternano altri dove l’accento cade solo ed esclusivamente sul lato tecnico, con la banale conclusione di risultare distaccati e per nulla accattivanti. Per non parlare poi delle evidenti cantonate come l’intermezzo acustico “Poison Sleep”, di per sè stupende, ma rovinate dall’eccessivo surplus di tecnica là dove sarebbe bastata la costruzione armonica a soddisfare l’ascolto.
Tale alternarsi di sutuazioni rende veramente difficile valutare l’album anche per chi verso questo genere è totalmente privo di pregiudizi; ciò che per me risulta realmente penalizzante è che l’alternanza non si presenta tanto di canzone in canzone, quanto proprio all’interno delle stesse, al punto da non consegnarci neanche un brano soddisfacente in maniera completa. Forse uno degli episodi meglio riusciti è “The Gilded Slave”, del quale occorre tuttavia superarare tutta la parte iniziale, molto ostica e ridondante nelle soluzioni. Ma il problema torna sempre uguale: non si ha il tempo materiale di abbandonarsi all’estasi dell’ascolto, che già arriva qualcosa ad interrompere tale sensazione e a raffreddare il momento…
Anche per quanto riguarda la produzione si sarebbe forse potuto lavorare un attimino meglio, dando più risalto alle chitarre (sinceramente troppo spente per essere su un album di Death Metal…) e evidenziando l’ottimo lavoro del bassista Tony Pernia. Sempre rimanendo nell’ambito del suono, pur viaggiando su livelli professionali, l’impressione generale è quella di un album non eccessivamente curato e comunque privo dell’impronta personale che ci si aspetta da una band. Riconosco tuttavia che nelle parti più rilassate tutte le capacità del gruppo vengono messe alla luce senza sbavature.
Le conclusioni vengono da sè: gli Psychotogen hanno realizzato un album che va preso molto con le molle, ponderando con calma l’acquisto visto che la longevità di un simile prodotto è molto discutibile… Pur essendomi entrato in testa con relativa facilità, non è poi scattato quel qualcosa in più che fa apprezzare l’ascolto in maniera completa, che vi fa entrare in testa all’istante l’immagine dell’album quando siete alla ricerca di un cd che vi faccia da piacevole sottofondo. Lascio ai miei dubbi indiscutibilmente soggettivi lo spazio che meritano, e concludo consigliando l’approccio del lavoro esclusivamente a chi ha già una certa dimestichezza col genere e ha la consapevolezza che non si troverà di fronte ad un lavoro rivoluzionario…
Matteo Bovio