Recensione: The Coming Scourge
L’Olanda dimostra ormai da parecchi anni di essere, assieme a USA, Canada, Svezia e Polonia, una delle Madri Patrie del death metal. Nonostante la prematura dipartita dei bombardieri God Dethroned, il livello qualitativo medio si mantiene assai alto, grazie ad altri act-monstre tipo i Bodyfarm.
Nati soltanto quattro anni fa, il combo olandese ha immediatamente fatto vedere di che pasta sia fatto con l’EP omonimo, “Bodyfarm”, uscito nel 2010. L’ottimo risultato in termini sia di critica sia di pubblico ha fatto sì che i Nostri siano stati messi subito sotto contratto dalla Cyclone Empire per dare alle stampe il primo full-length, “Malevolence” (2012). Dodici mesi appena, ed ecco il successore, “The Coming Scourge”, sempre per la label belga. Che, per l’occasione, ha fornito alla band i mezzi necessari per risolvere in modo totalmente professionale la questione: missaggio e masterizzazione di Ronnie Björnström ai Garageland Studios (Umea/Svezia: Paganizer, The Grotesquery, The 11th Hour, Bone Gnawer, Blodsrit), registrazione a cura di Harry van Breda presso i Bandbunker Studios di Amersfoort (Olanda).
Un investimento senza dubbio azzeccato, poiché “The Coming Scourge” ha un suono pressoché perfetto per il genere. Genere che abbraccia la famiglia del death metal ortodosso, non distante – per l’appunto – dai lavori dei citati God Dethroned. Quest’accostamento, però, serve solo a dare un’idea del sound dei Bodyfarm, giacché gli stessi ci mettono decisamente del loro nel mettere assieme i nove brani del platter (più la cover dei Bathory “Enter The Eternal Fire”, dal leggendario “Under The Sign Of The Black Mark” del 1987, ideale occasione per Thomas Wouters di scatenare la sua ugola… ‘rasposa’). Certo, la filosofia con la quale Wouters e i suoi compagni d’arme affrontano la causa musicale pone come punto fermo il rigido rispetto dei dettami di base del death classico. Quindi, eludendo accuratamente ogni forma di contaminazione ‘strana’ e/o evoluzione accelerata; lasciando conseguentemente ad altri l’onere della ricerca dell’originalità a tutti i costi.
Malgrado quest’approccio tradizionale al death metal, non mancano elementi nonché spunti d’interesse. Come, per esempio, il sapore hardcore della trascinante “Unbroken”, retta da un grandioso main riff che s’instaura come un ossessionante refrain nel cervello. O gli inserti ambient che rimandano a echi di cruente battaglie lontane (“Frontline Massacre”), magari legati a dolcissimi passaggi acustici (“Eden’s Destruction”) che fanno da preludio alla delirante, violentissima “The Well Of Decay”. I livelli pressione sonora che il combo di Amersfoort riesce a produrre, infatti, sono assolutamente devastanti; e nei segmenti in cui esso spinge al massimo con i BPM si lambiscono anzi si toccano i limiti della trance da hyper-speed. Proprio in quest’ultima song, Quint Meerbeek dimostra come sia possibile accelerare con i blast-beats in maniera estrema senza tuttavia perdere un grammo di peso, di potenza, di profondità. Pure l’incipit di “The Frozen Halls” rimanda a oscure melodie arpeggiate, e l’incedere del brano si rivela massiccio, lento, ossianico, soffocante; rivelando la buona capacità del quartetto nel saper costruire efficacemente (anche) gli slow-tempo. Non dimenticandosi mai, in ogni caso, di trasfondere nel lavoro quell’alone thrashy – immancabile in un’opera di death metal ‘ordinario’, almeno a parere di chi scrive – che, in “The Siege Of The Mind”, si può percepire con grande facilità. Oltre a questo, la canzone scatena il rilevante gusto melodico del solista Bram Hilhorst e le orchestrazioni, ancorché mai invasive, di Pasi Pikänen.
Non male, non male davvero, questi Bodyfarm. Sia quando lavorano di spada, ma anche quando impugnano il fioretto.
Daniele “dani66” D’Adamo
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