Recensione: The Course of Empire

Di Stefano Usardi - 10 Settembre 2019 - 10:00
The Course of Empire
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2019
Nazione:
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87

Ed eccomi qui, dopo sei anni di attesa, con l’ultimo nato in casa Atlantean Kodex tra le mani. Nonostante la data di uscita ufficiale sia fissata al 13 Settembre, “The Course of Empire”, introdotto da un artwork che definisco semplicemente sfavillante, è disponibile per intero su Youtube da qualche giorno e già si pone come tassello definitivo della discografia dei tedeschi, nonché come fulgido esempio di cosa significhi suonare un certo tipo di epic metal nel 2019.
Rispetto al precedente “White Goddess” poco è cambiato, almeno se si parla in termini generali: a un ascolto distratto i nostri propongono il solito metallo imperioso e solenne fatto di melodie grandiose, impreziosito da cori possenti e una voce limpida e piena che, seppur non raggiungendo (a mio personalissimo avviso, sia ben chiaro) le vette evocative di un Deathmaster, trasmette comunque la giusta enfasi e si incastona perfettamente nella corazza sonora creata dai suoi colleghi. Andando un po’ più a fondo, invece, si colgono le prime differenze. Nonostante in questo “The Course of Empire” il livello di perentoria pomposità si mantenga sullo stesso livello del suo predecessore (e cioè parecchio alto), le velocità tornano a stabilizzarsi su tempi lenti, scanditi e marziali per tutta la durata dell’album; quasi come logica conseguenza, il tiro complessivo di  “The Course of Empire” vira verso una drammaticità più oscura, tinteggiando le variazioni sul tema che permeavano il capitolo precedente (e che ho sempre trovato un po’ troppo teatrali, a dirla tutta) con drappeggi più foschi, abbandonando le derive powereggianti che avevano fatto capolino nella dea bianca per esibire una resa più viscerale. Questa cupezza latente ha innalzato leggermente anche il tasso di aggressività dei pezzi, con le chitarre che si fanno un po’ più graffianti nel loro tessere riff maestosi ma al tempo stesso melodici, carichi di quel pathos antico e solenne che mi fa sempre piacere sentire ma senza scadere troppo nell’eccesso di patetismo. Ciò ha consentito ai bavaresi – orfani di Michael Koch, prontamente sostituito dalla brava Coralie Baier alla chitarra solista, autrice di una prova elegante e discreta – di confezionare un album forse meno immediato del suo predecessore ma più legato al classico epic metal: un monolite ritmico lento, ruvido e drammatico, forte di un equilibrio interno invidiabile tra parti aggressive e i numerosi passaggi indirizzati alla semplice creazione di puro pathos.
Come sempre, quando si parla del quintetto, i testi svolgono un ruolo importante nell’economia dell’album: la componente narrativa dei nostri è sempre stata piuttosto pronunciata, e per questo motivo anche “The Course of Empire” si sviluppa come una vera e propria antologia di racconti epici, pescando da letteratura, mitologia e storia e tenendosi lontano dalla ricerca spasmodica di ritornelli facili e caciaroni per accalappiare consensi immediati. Quasi tutte le tracce di “The Course of Empire” sono piuttosto lunghe (la metà delle canzoni supera gli otto minuti), e ciò permette ai nostri di operare minute variazioni nel tono delle composizioni per dare ad ogni segmento di testo il giusto alveo musicale. A dispetto della lunghezza dell’album, comunque, il tasso di coinvolgimento è, a mio avviso, decisamente alto: complice un livello di scrittura che permette agli Atlantean Kodex di intessere la giusta drammaticità grazie a trame portanti dal vago retrogusto ipnotico, sacrale, dando vita a racconti musicali epici ed appassionanti, capaci di rapire l’ascoltatore con le loro atmosfere maestose e di trascinarlo in un mondo di fierezza e battaglie, in cui gli imperi sorgono e crollano in un battito di cuore, infarcendo poi il tutto con pregevoli tocchi di classe dispensati qua e là. Per questo motivo una trattazione traccia per traccia perderebbe, in questo caso, la sua efficacia: “The Course of Empire” va ascoltato attentamente e dall’inizio alla fine, per godere appieno delle lievi variazioni che intercorrono tra una traccia e l’altra (ad esempio le melodie trionfalissime di “Lion of Chaldea” o la drammaticità solenne e minacciosa di “A Secret Byzantium”, giusto per dirne due) e, soprattutto, per gustare le sunnominate abilità narrative del gruppo, che trovano compimento nella poderosa e sfaccettata title track, vera summa del Kodex-pensiero e climax ideale dell’album.

I bavaresi sono ambiziosi, inutile negarlo, e puntano giustamente in alto: la lezione dei nomi grossi del genere è perfettamente metabolizzata e trasformata in un album che, nonostante strizzi continuamente l’occhio al passato (vizietto quasi inevitabile, visto il genere), rifiuta il concetto di “becero ripescaggio” e tiene lontana da sé la puzza di vecchio a tutti i costi di certi colleghi per suonare al cento per cento Atlantean Kodex, filtrando certi stilemi attraverso il proprio gusto e consegnando al pubblico un album memorabile, sontuoso e senza tempo, destinato a far parlare di sé per parecchio.
Ma di questo ne riparleremo nel consueto specialone natalizio di Truemetal.

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