Recensione: The Cult
A distanza di poco più di un annetto dal loro settimo album tornano sulle scene i Crystal Viper, che dopo gli esperimenti più melodici e powereggianti di “Tales of Fire and Ice” tornano all’ovile, per così dire. Il qui presente “The Cult” segna, infatti, una sorta di passo indietro per il combo europeo sancendone il ritorno tra le folte schiere della NWOTHM, corrente fautrice di un metallo volutamente rétro (i rimandi agli Warlock della biondocrinita Doro Pesch sono, nell’opera della Vipera Cristallina, sempre ben presenti) fatto di chitarre cromate e toni agguerriti, melodie gloriose e una certa carica anthemica. Purtroppo, sebbene avessi auspicato questo ritorno già dall’ascolto di “Tales of Fire and Ice” (che comunque mi era piaciuto), a questo giro non tutto funziona come dovrebbe. Sulla carta “The Cult” ha esattamente ciò che serve per restare a lungo nel mio lettore – e vi anticipo già che, nonostante tutto, ci resterà – ma se avete già adocchiato il voto una domanda sembrerebbe doverosa: “Cos’è andato storto?”
Procediamo per gradi, iniziando con quello che funziona: innanzitutto Marta, che si dimostra perfettamente a suo agio nel ruolo della metal queen dalla voce graffiante senza suonare forzata, e con la sua timbrica perfetta per il genere (parere personale) trasmette il giusto fomento facendo comunque tesoro del diverso approccio mostrato in “Tales…”. In secondo luogo il nuovo batterista Cederick Forsberg (polistrumentista di, tra gli altri, Blazon Stone e Cloven Altar) si è subito ambientato, pompando egregiamente i pezzi col suo fare agguerrito e dinamico. Infine un tiro complessivo che è cresciuto dopo i primi ascolti e non mi è affatto dispiaciuto: un incedere sfacciato che, unito alle belle melodie create dal combo europeo, dona alle tracce un impatto immediato. Il problema è che durante gli ascolti ho anche percepito la mancanza del classico guizzo che permettesse a una traccia orecchiabile, e per certi versi anche giustamente coatta, di rimanermi francobollata nella testa per giorni. In “The Cult” questo non avviene: nonostante in scaletta si trovino alcune ottime tracce, il risultato finale non sembra sempre a fuoco, col gruppo che spesso si ferma un attimo prima di caricare il colpo e piazzare l’affondo decisivo.
Dopo l’intro in odor di Tangerine Dream “Providence” si parte con la title track, una bella traccia, diretta e dal tono accattivante, in cui Marta ha subito l’occasione di mettersi in mostra con una resa vocale più intraprendente e guerrafondaia rispetto all’immediato predecessore. La canzone procede molto bene, alternando riff arcigni ad aperture melodiche e trasmettendo, in ultima analisi, una bella carica. Con “Whispers from Beyond” i nostri abbassano i ritmi: la traccia è il classico mid tempo tutto cafonaggine che alterna riff minacciosi a squarci più melodici, che però non mi convince fino in fondo per via di un ritornello un po’ sottotono e una certa monotonia. “Down in the Crypt” torna ad alzare i giri del motore per dispensare adrenalina e fomento battagliero con un’altra canzone semplice e diretta, mentre con la successiva “Sleeping Giants” i nostri decidono di andare all-in con la carica epica. Il brano, una classica marcia trionfale tutta enfasi e muscoli in bella vista, si distende su tempi lenti e marziali ma qualcosa si inceppa: a mio avviso, in questo caso il punto debole è proprio la voce di Marta, che per quanto ce la metta tutta non riesce a trasmettere la giusta carica emotiva, soprattutto nel ritornello, e ne spezza l’afflato in partenza. Con “Forgotten Land” i nostri tornano a suonare la carica dispensando ritmi agili e una certa belligeranza, ma il pezzo in sé risulta un po’ anonimo, salvato però dalle ottime melodie che lo punteggiano. Un arpeggio languido e a suo modo inquieto apre “Asenath Waite”, che poi si sviluppa come una traccia grintosa in cui finalmente i nostri tornano a macinare metallo e sfacciataggine a piene mani. Il brano si perde un po’ per strada nella sezione centrale, ma per fortuna si riprende in tempo per il finale, appena Marta ritorna in cabina di regia. Anche la successiva “The Calling” parte bene, dispensando subito una bella melodia invadente, ma si sviluppa poi con un fare stradaiolo che scivola in una certa autoindulgenza di fondo, risultando alla fine una delle tracce più trascurabili dell’album. Si passa ora a “Flaring Madness”, bordata heavy in cui, per fortuna, tutto si rimette in carreggiata, andando magicamente al suo posto: melodie trionfali, chitarre sferzanti, accelerazioni sfolgoranti e squarci anthemici, il tutto guarnito da un ritornello cafone e un’attitudine prepotente che ne fanno, pur nella sua semplicità, una delle tracce più riuscite di “The Cult”. L’album si chiude sulle note di “Lost in the Dark”, traccia movimentata in cui i nostri mantengono alti i giri del motore con chitarre rombanti che si affiancano a melodie più solari e dirette. C’è posto anche per una bonus track, che nel caso del cd omaggia nientemeno che King Diamond (nella versione in vinile invece ci si occupa di “Trial by Fire” dei Satan, recuperata a suo tempo anche dai Blind Guardian). Pur non amando particolarmente la voce del Re Diamante, ho apprezzato “Welcome Home” (con Andy La Roque ospite alla sei corde, tra l’altro), con Marta che imita alla perfezione gli acuti e il tono maligno e insinuante del danese pazzo.
Tirando le somme devo dire che “The Cult” mi è piaciuto abbastanza e mi spiace molto non premiarlo con un voto più alto, ma in tutta onestà devo anche ammettere che la sensazione di incompiutezza di cui parlavo è stata spesso presente durante l’ascolto, e rimane il motivo per cui quest’album non può andare, a mio avviso, oltre un’abbondante sufficienza. Resta comunque un buon disco di onesto heavy metal (territorio che spero i Crystal Viper non abbandonino più), ben suonato e dotato anche di qualche traccia esaltante, che nonostante una certa prevedibilità ha i numeri per piacere a molti ma che a me, purtroppo, sa un po’ di occasione sprecata a metà.