Recensione: The Darkest Hour

Di Roberto Gelmi - 12 Dicembre 2014 - 14:25
The Darkest Hour
Band: The Shiver
Etichetta:
Genere: Gothic 
Anno: 2014
Nazione:
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60

I The Shiver nascono come progetto nel 2005 dall’incontro tra Federica “Faith” Sciamanna (cantante e compositrice) e Francesco “Finch” Russo (batterista). La band, oggi, è cresciuta musicalmente e il suo sound ingloba elementi alternative rock, alcuni sprazzi metal, ambient ed electro/goth.
Il gruppo itailano vanta tour in tutta Europa e s’ esibito al fianco di band quali The Ark e Papa Roach (questa la dice lunga, nel bene e nel male). Il combo è al suo terzo studio album, dopo la parentesi acustica dell’EP The Acoustic Experience #1 del 2011. In passato hanno pubblicato altri due full-length: Inside (2008), uscito per la label indipendente Uk Division Record e poi ristampato visto il successo riscosso a livello europeo; A New Horizon (2010), edito da Aural music/Dreamcell11, con Alessandro Paolucci (Raw Power, Prozac+) alla produzione.
The Darkest Hour è stato pubblicato, invece, lo scorso ventotto marzo, preceduto dall’uscita di un primo singolo, “Ocean”, il cui video è andato in onda nella rotazione di Rock TV. Il trenta ottobre è stata la volta del secondo singolo, “The Key”. Attualmente la band è in tour in Italia per promuovere il nuovo studio album, che, pur non essendo un concept, vede una decina di brani dal breve minutaggio dipingere un affresco cupo della società odierna, separativa, dunque fragilissima. I The Shiver puntano, impossibile negarlo, su tematiche all’ordine del giorno, stereotipate ma efficai proprio perché attuali: ecco spiegata, altresì, la vena malinconica che pervade il paltter, i cui pezzi sono stai scritti e composti da Faith tra il 2012 e il 2013 e poi sapientemente arrangiati e prodotti da Vincenzo Mario Cristi.

Ottimo attacco quello della già citata “Ocean”: drumwork sincopato e linee vocali magnetiche. I synth di tastiera sono ruffiani, il refrain anche di più (con l‘anafora «I’m falling»). A inizio del terzo minuto un break canonico, con tinte stoner, poi il finale non regala sorprese. In definitiva un pezzo ficcante, dalla forma canzone minimale ma vincente, così come nel caso di “The Key”. Buone le atmosfere cupe e vellutate, il ritornello graffia pur restando orecchiabilissimo (i testi sono volutamente masochistici: «You can hurt me / you can crush me / you can wipe me out to hell»). Echi dei primi The Gathering qua e là, in definitiva un buon singolo.
Si riprende fiato con l’incipit al ralenti di “Little Lonely Boy”, brano intimista («our world through the sea / is far now, we forget / the strength to live / is our love in the air») che non sfigurerebbe in un film di Richard Linklater. “Forgotten Soul” ridà grinta al sound del platter, con un guitarwork invasivo, ma non pesante. Faith (in)canta, il gruppo del resto regge sulla sua personalità e capacità compositive. A metà del terzo minuto c’è un cambio di tempo e le linee di basso si fanno pulsanti. Non male i controcanti nei secondi finali, ma il pezzo in sé pecca di una certa ripetitività. Cosa preoccupante, questa, visto che non siamo ancora a metà disco.

Con “Bury” il giudizio non muta, il refrain è di nuovo ammiccante, ma tutto resta molto prevedibile; peccato, i testi sono evocativi “affogati” tra pioggia, memoria e dolore. I toni avvolgenti dei primi sessanta secondi di “The Secret” sembrano dare un minimo di ecletticità alla proposta dei The Shiver: torna lo spettro gotico dei The Gathering, anche con la presenza di voci maschili. Uno dei pezzi meno anonimi del platter, ma non privo di monotonia; un ad libitum interessante (che anticipa la title-track nel verso «The darkest hour’s now») ma che necessitava di maggiore inventiva e pathos.
Delay inflazionati in apertura di “Into the darkest hour”, sorta di ambiziosa title-track, che convince nei suoi cambi di atmosfera e nelle linee vocali variegate, pulite e potenti. Le liriche lasciano un barlume di speranza («oh, your mind is open wide») e rivelano il tocco femminile di Faith a livello stilistico.
Siamo in dirittura d’arrivo. Gli ultimi tre brani non spiccano granché. “Runaway” scorre senza intoppi, tra pieni e vuoti (e testi filoneisti che riprendono nella parola chiave goodbye i versi finali di “Forgotten Soul”); il testo del refrain di “Anything” lascia sbigottiti («Your skin / burnt your skin for me»); infine, “Over”, brano più lungo in scaletta, è un epilogo mesto (se l’opener si apriva con uno sconsolato «Falls the sky above my soul», qui i testi si chiudono con un irreversibile «We fly away / no more») con tanto di ritmi militari e cori apocalittici. Faith, inoltre, si concede nell’epilogo qualche linea vocale più sporca, un canto del cigno decadente e ammaliante.

Per tirare qualche considerazione finale, The Darkest Hour è un album che merita una sufficienza, ma di misura. Spiccano alcuni brani come il trittico d’apertura, la title-track e il brano finale. Per il resto si tratta di musica passabile, ma non memorabile. Auguriamo ogni bene alla band italiana e un felice tour.

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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