Recensione: The Darkest Skies Are The Brightest
Era un po’ che non avevamo notizie di Anneke Van Giersbergen. È di tre anni fa infatti la sua ultima uscita, il debut album dei Vuur, con i quali l’olandese sembrava essere – dopo la collaborazione con Arjen Lucassen nei Gentle Storm – ormai tornata a sonorità decisamente metal. E invece eccoci qui: “The darkest Skies are the brightest” rimescola nuovamente le carte in tavola.
Come ammesso dalla stessa Anneke in sede d’intervista, “The darkest Skies are the brightest” è un disco inaspettato e assolutamente non pianificato, frutto essenziale di quanto accaduto (non solo a lei) nel corso dell’ultimo anno. E come ha detto la cantante, in effetti, le sue intenzioni erano proprio quelle di dare un seguito all’opera prima dei Vuur e confermare così la sua ritrovata linea metallica. Tuttavia, durante la composizione dell’album sono andate delineandosi sonorità intimiste e malinconiche che sono state infine raccolte appunto in questo disco.
Un album che vede un ritorno ai primissimi passi mossi dalla singer nella sua carriera solista. Perché a ben guardare Anneke ha sempre avuto una certa tendenza al trasformismo. E i suoi stessi album solisti – quattro, usciti tra il 2009 e il 2013 – presentano come unico trait d’union la voce. Quindi, in sostanza, questa nuova uscita ci riporta indietro all’esperienza di Agua the Annique.
Si è detto infatti di atmosfere intimiste e raccolte, per larga parte costruite attorno a una chitarra acustica e – ovviamente – alla voce. Ma ci troverete pure altri strumenti che, a un primo ascolto, passano inosservati. E sono proprio questi strumenti che danno una miriade di sfumature e una gran profondità all’album. Ce ne eravamo già accorti benissimo con “My promise” il singolo che in chiusura di 2020 aveva annunciato il platter. Un platter che però non è fatto solo di composizioni tristi e cantato struggente. Al contrario. “The darkest Skies are the brightest” è un disco che emana calore e speranza, come lasciano intendere il suo titolo e la opener “Agape”, in cui è racchiuso il verso che dà il titolo all’album.
Una buona foto del platter è invece data da un altro singolo, “Hurricane”. Un brano decisamente più ricco a livello sonoro, sincopato e appunto, piuttosto caldo. Linee guida che ritroviamo in diversi episodi, come l’ottima “I saw a Car”, brano molto prossimo al folk, o in “Low and Behind”, vera e propria ballad di rock acustico. Ma anche in “Survive”, che effettivamente è l’episodio più rockeggiante del disco.
Per le atmosfere scarne e intimiste invece merita una menzione “Losing you”, che non avrebbe sfigurato su “Home” dei The Gathering, o “Keep it simple” (di titolo e di fatto).
“The darkest Skies are the brightest” è dunque un album che si ascolta con piacere. Per quanto non sia esattamente il tipo di sonorità che qui siamo abituati a trattare, è un buon lavoro. Forse un po’ derivativo, ma scalda il cuore e si sente benissimo che nasce da una necessità sincera. In parole povere: non è il disco che ci aspettavamo da Anneke a questo punto della sua carriera, ma sicuramente era il di cui lei aveva bisogno. E sentire la voce della divina è sempre un piacere.