Recensione: The Dead Word
C’è qualcosa di impressionante nel ritmo che Devon Graves (al secolo Buddy Lackey) sta imponendo ai suoi Dead Soul Tribe, soprattutto se presta orecchio alla qualità della proposta. Al ritmo di un album all’anno l’ex vocalist dei mai abbastanza compianti Psychotic Waltz continua regolarmente dal 2002 ad ampliare la discografia di un progetto che, per quanto relativamente giovane, non può certo più definirsi nuovo. The Dead Word è il titolo del quarto full-length partorito da Devon, i cui contenuti sono anticipati in modo impeccabile dall’eloquente artwork di Travis Smith.
Non aspettatevi cambi di rotta: al contrario Devon continua la sua solitaria esplorazione di un sound unico, profondo, ora battendo nuove strade, ora ripercorrendo sentieri già noti. Non è un viaggio facile, e per chi vorrà assimilarsi alle ombre di questo labirinto di cunicoli cupi e angusti il percorso dovrà essere forzatamente lento, vigile e paziente. Dopo un’opener che ricorda la vecchia Spiders and Flies in modo tanto lapalissiano da sembrare una versione rivisitata della stessa, ecco distendersi quelle atmosfere crepuscolari che dalle origini hanno avvolto il nome della band. Ritmiche ipnotiche e –manco a dirlo – tribali scandiscono i tempi di brani condotti dalle chitarre e, soprattutto, dalla voce dello stesso Devon.
L’accento resta su toni gravi, ben rappresentati dalla roboante Don’t You Ever Hurt, sorretta da riff di granito nero, e dall’inquieta Waiting in Line, un coacervo di tensione in costante crescita improvvisamente dissipato dalle note fugaci di un esile flauto; ma c’è spazio anche per un paio di episodi sorprendentemente più distesi: così la malinconica Some Sane Advice sfocia d’un tratto in un chorus agrodolce, mentre l’insospettabile My Dying Wish, animata da un denso sangue elettronico, riscatta di nuovo la strofa in penombra con un ritornello aperto e luminoso.
Più controversa la successiva A Fistful of Bended Nails, che accanto a un ispirato attacco congiunto di chitarre e violini offre una struttura un po’ troppo annichilente, soprattutto dal punto di vista vocale. Di nuovo spazio ai flauti nella conclusiva The Long Ride Home, frutto degli sforzi comuni di Devon e del batterista Adel Moustafa, convincente sotto ogni aspetto, mentre la breve ma piacevolissima Someday pone al centro della scena voce e pianoforte, intrecciati in un vicendevole accompagnamento di grande intensità.
Chi ha già apprezzato i precedenti lavori di Devon con i Dead Soul Tribe, difficilmente rimarrà deluso da quest’uscita. A quanti invece non fosse nota o gradita in modo particolare la sua proposta, potrebbe tornare utile un ascolto preliminare, per quanto limitante rispetto alla piena fruizione di una siffatta proposta musicale. Sia chiaro che Devon Graves pare appartenere al novero ristretto di quelle personalità del tutto incapaci di dar vita a musica di bassa qualità, ma le sue creazioni, sia altrettanto chiaro, non sono certo per tutti.
Un ultima osservazione: forse, concedendo all’ispirazione un po’ più tempo per produrre i suoi frutti, il prossimo album potrebbe essere un vero e proprio capolavoro. Capolavoro che è pienamente alla portata di un grande musicista come Devon.
Tracklist:
01. Prelude: Time And Pressure (1:40)
02. A Flight On An Angels Wing (4:31)
03. To My Beloved… (5:56)
04. Don’t You Ever Hurt? (4:56)
05. Some Sane Advice (3:57)
06. Let The Hammer Fall (4:03)
07. Waiting In Line (6:34)
08. Someday (1:34)
09. My Dying Wish (4:01)
10. A Fistful Of Bended Nails (5:25)
11. The Long Ride Home (4:20)